Per trent’anni, ogni giovedì e domenica, si ritrovavano in Rue Saint-Roch a Parigi (oggi 8 rue des Moulins) o nella tenuta di Grandval nei pressi di Sucy, personaggi del calibro di Diderot, Morellet, Marmotel, Galiani, d’Alambert, Hume, Beccaria, Franklin, Smith, Sterne, Raynal, Rousseau. Erano ospiti nei salotti del barone Paul-Henri-Dietrich de Holbach.
Siamo nella seconda metà del ‘700, in pieno Illuminismo, nel secolo della Ragione; e loro sono tra i maggiori rappresentanti. Discutevano di ragione, fede, scienza, progresso, metafisica, politica, in modo animato magari ma sempre rispettandosi e mostrandosi tolleranti. Probabilmente il più rivoluzionario tra tutti, il più radicale, ma non per questo il più ricordato, il primo a cercare di fondare razionalmente il pensiero dei libertini del ‘600, dell’ateismo (accresciutosi a seguito delle scoperte scientifiche e astronomiche che dopo la Riforma protestante aveva avuto prepotente voce), è stato il padrone di casa: quel barone di origini tedesche che ospitava il più importante salotto filosofico del XVIII secolo. Accompagnato dalla gentilissima seconda moglie, Charlotte-Suzanne d'Aine (la prima, il suo vero amore, la sorella maggiore di quest’ultima, era morta a soli venticinque anni), «l’ateo furiosissimo» come lo definì Alessandro Verri, era unanimemente considerato il maître d’hôtel de la philosophie. Riconosciuto da tutti, anche da abati e preti, come uno degli uomini più eruditi di Francia ed Europa, il più prolifico scrittore di letteratura clandestina di tutti i tempi, aiutò finanziariamente, e scrivendo ben 438 articoli, il grandioso e rivoluzionario progetto dell’Encyclopédie dell’intimo amico Diderot. Fu traduttore e divulgatore di opere tedesche di chimica e metallurgia; nei suoi scritti si batté contro l’assolutismo politico e i privilegi feudali, per la democrazia costituzionale con divisione dei poteri, per l’educazione pubblica dei cittadini, la libertà di pensiero, di stampa, di satira, di critica. Fu deciso antimilitarista, contrario alle torture e alla pena di morte, per la parità dei diritti delle donne, per il divorzio e per il rispetto verso gli animali, contro il colonialismo e la valutazione di razze inferiori rispetto ad altre. Sono molti che di lui raccontano, insieme alla sua passionalità che alle volte sfociava in aggressività, la bontà, la dolcezza, la sensibilità d’animo. Insomma fu filantropo e pensatore all’avanguardia, almeno in vita, dell’intellighenzia francese negli anni appena precedenti a quella Rivoluzione che un po’ il mondo ha cambiato.
Ma la sua più grande colpa, il più grande delitto che potesse commettere agli occhi della storia fu quello di scrivere, con ardore e cognizione, opere atee.
Secondo le Baron, infatti, non è il relativismo - tema tanto attuale… - ma l’ateismo l’unico criterio possibile sul quale poter fondare una società nuova, giusta, naturale, razionale. È l’uomo e il suo buon senso, non Dio e le sue religioni, a determinare i principi etici e morali. Da ciò consegue tutta la prospettiva politica che d’Holbach si impegna a descrivere nelle sue opere. Per d’Holbach dubitare allo scopo di trovare una spiegazione vuol dire incamminarsi in una visione positiva della conoscenza. Da simili premesse, in sintesi, egli tratteggiò un modello di stato ipotetico in cui, soppresse la superstizione e la tirannide, ciascun uomo rincorre gli istinti naturali in vista della propria felicità, cercando al contempo di rendere felici gli altri membri della società. Una società dove l’ateo è il filantropo per eccellenza, il totalmente uomo. Eliminando Dio, è l’uomo che viene messo al centro della discussione sulla morale. Un “trasvalutatore” dei giudizi morali ante litteram se vogliamo. Ma non è solo Nietzsche che precede: nell’esaminare il Dio ebraico d’Holbach precorre l’homo homini deus est di Feuerbach; attraverso la sua visione materialista, determinista e meccanicista anticipa di un secolo le scoperte lamarchiane e darwiniane sull’evoluzione; si pone pure a modello per i filosofi utilitaristi. Un filosofo che ha ispirato, sebbene priva di quel “buon senso” di matrice holbacchiana, l’opera estrema del marchese de Sade (addirittura alcuni interi brani del suo Système de la nature sono riportati nei romanzi sadiani); fu anche caro al nostro Leopardi (nello Zibaldone è citato innumerevoli volte); poi apprezzato dal romantico Shelley e oggi più volte preso a modello dal filosofo francese Michel Onfray.
E per questo, sebbene in vita considerato il maître d’hôtel de la philosophie, l’uomo più erudito di Francia, e sebbene i temi proposti nelle sue opere siano ancora oggi attualissimi, fu presto dimenticato.
In un’epoca in cui i conflitti religiosi non hanno perso forza, in cui i freni che talune ideologie costringono la scienza e la tecnologia ad arrestarsi innanzi alla loro connaturata spinta di progresso, speculazioni simili a quelle sviluppate dall’«ateo furiosissimo» andrebbero di certo riscoperte e valorizzate. Non è dal confronto tra posizioni estreme che si può sperare di raggiungere una tollerante verità? È difficile pensare che, dopo le grandi rivoluzioni culturali moderne (pensiamo ad esempio ai progressi scientifici, alle ancora attualissime scoperte politiche dell’Illuminismo), si possa tuttora lasciare spazio all’oblio della grandezza di certi uomini. Oggi, in questo millennio in cui tutto appare frammentario, simile alle contraddizioni, liquido, provare a rivalutare alcune figure, alcuni modi di pensare, potrebbe portare probabilmente allo scontro. Ma è solo dal coraggio di affrontare le verità che è possibile scorgerne altre e nuove. Riconsiderare a viso aperto autori come d’Holbach ci renderebbe più liberi dalle ipocrisie, dalle catene che inibiscono la umana sete di conoscenza.
Prima di concludere, quando nel gennaio del 1789 muore, pochi mesi prima della scoppio della Rivoluzione francese che con la sua opera aveva propugnato, il clandestino barone Paul-Henri-Dietrich de Holbach verrà sepolto da “cattolico” nella chiesa di Saint-Roch.
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