L’ordine naturale delle cose è il nono romanzo della prolifica carriera di scrittore di António Lobo Antunes – fino ad oggi si contato ventisette libri pubblicati, partendo dall’esordio, nel 1979. Questo romanzo compone, assieme a Trattato delle passioni dell’anima e La morte di Carlos Gardel, la trilogia detta «ciclo di Benfica», dal nome del quartiere di Lisbona dove Lobo Antunes ha trascorso la sua infanzia, e della principale squadra di calcio della città che il mite e solitario medico (dalla vita quasi eremitica) tifa sfegatatamente.
Come in quasi tutti i romanzi dell’autore portoghese (ma in questo più compiutamente di altri), la storia è un complesso intreccio che ogni personaggio, dal proprio punto di vista, narra con la tecnica che ha reso noto Lobo Antunes. Ogni racconto è parziale e a volte anche contraddittorio rispetto altri, ma è solo quando si mettono insieme i pezzi di questo puzzle, quando si ascoltano questi “assoli” come un concerto polifonico, che tutto torna al proprio posto: passato e presente, odi, rancori e speranze, miserie (molte) e nobiltà (poche); tutto secondo l’ordine naturale delle cose.
A Esponsede, nel cinema sulla spiaggia, il film e il mare erano la stessa cosa, lo stesso rumore dietro la parete di tela, e non soltanto il film e il mare, ma anche i pini e i salici, le cabine degli stabilimenti e il vento, io mi dimenticavo della notte e del vento, delle barche dei pescatori e della schiuma sulla sabbia, mi dimenticavo del freddo, ad agosto, trentasei anni fa, quando il mio fidanzato si sdraiò su di me, mi alzò la gonna e io sentivo le mani che, frugandomi, strappavano elastici, mi pizzicavano la carne, mi facevano male, sentivo le mani che mi trovavano, che mi allargavano, che percorrevano il canale del mio ventre, sentivo il suo respiro sul mio collo, sentivo la voce che ripeteva il mio nome, sentivo un liquido scorrere da me sui cisti e spandere il suo odore intorno, e mentre le immagini si coagulavano sul telone, uguali al mare di Esponsede, uguali al vento, e ai salici, e ai pini, e alla notte, si coagulavano sul telone altrettanto nero delle cabine degli stabilimenti, altrettanto nero del suo viso che si allontanava da me, mi faceva ciao con la mano, e io lì squartata, nuda dentro di me e schiacciata contro la parete di tela, senza parole, con un’assurda necessità, chissà perché, di piangere. Lo vidi tre settimane dopo nel negozio di mio padre e neanche mi sorrise, né mi parlò, lasciò i soldi sul bancone, prese il pacchetto di sigarette, scomparve, io lì, a Esponsede, vicino ai mille segreti dell’acqua, a pensare a ciò che il padrone del cinema mi aveva tolto e che valeva qualcosa solo perché non c’era più.
António Lobo Antunes, L’ordine naturale delle cose, Feltrinelli, Milano, 2001, pag. 103, (traduzione di Rita Desti)
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