Narra il gossip letterario che la scrittrice italiana Romana Petri (già premio Mondello, Grinzane-Cavour e finalista allo Strega) abbia conosciuto il suo attuale marito, il portoghese Diogo Madre Deus, perché questi, a capo della casa editrice lusitana Cavalo de ferro, era il suo editore portoghese. La Cavalo de ferro è una casa editrice specializzata in letteratura straniera “di nicchia” (tra gli italiani tradotti, oltre ai classici, figurano Buzzati, Augias, Manganelli e Sanvitale). Il matrimonio con Diogo Madre Deus ha portato la Petri ad amare ancora di più il Portogallo, di cui ha tanto scritto anche nei suoi romanzi, tanto da farla diventare editrice specializzata in letteratura portoghese. Col marito, infatti, la Petri a Roma ha dato vita a Cavallo di ferro, il corrispettivo italiano della casa editrice di Lisbona che, nel nostro paese, si occupa di: «divulgare la letteratura lusofona in Italia».
L’ultimo titolo uscito è il poco noto, ma molto chiacchierato in certi ambienti, S. Il Nobel privato. La S del titolo si riferisce, abbastanza palesemente per chi lo ha letto, a José Saramago, ed il testo vuole essere una sorta di biografia romanzata – a tratti molto romanzata – della vita del grande autore portoghese. La storia narra di S. nella sua casa al mare, solo col suo cane (lo stesso del romanzo La caverna) che attende la moglie, giovane spagnola ninfomane che passa nottate intere alle feste e che finisce per tradirlo ripetutamente. Si scoprono così i retroscena d’un Saramago cornuto ed erotomane, inadeguato alla giovinezza d’una moglie (nella realtà Pilar Del Rio) che non riesce a considerare del tutto “sua”. Tra vicende sessuali grottesche e probabilmente inventate – forse anche quelle relative a Pilar Del Rio – il grande maestro si toglie, tramite il suo anonimo autore, molti sassolini dalle scarpe. Sulla leggendaria rivalità con Lobo Antunes, da Saramago mai apertamente affrontata, qui l’autore si sofferma a ricordare la furente reazione di quello che con grande soddisfazione S definisce «il secondo scrittore portoghese», allorché egli venne insignito del Premio Nobel, e aggiunge:
Sia ben chiaro, io l’ho vinto e lui no. Era fondamentale che fossi io a vincerlo. Non tanto perché dovessi proprio essere io, ma perché non doveva essere lui. E dal momento che ogni anno la giuria del Nobel sceglie un Paese, quell’anno o ero io o era lui. Generalmente non ho manie di grandezza, voglio dire di natura, ma mi sono dovuto adattare, ho dovuto affilare le unghie, guai se non lo avessi fatto, mi avrebbe mangiato vivo. Non oso nemmeno pensare a cosa sarebbe successo se a vincerlo fosse stato lui. Quel matto. Ha vent’anni meno di me ma il cervello se l’è bevuto nella guerra d’Africa.
Oltre a Lobo Antunes, che descrive come un pazzo alcolizzato che l’invidia ha reso «grasso come un bue» c’e né per molti, anche per gli italiani. Non è difficile infatti identificare Antonio Tabucchi in «quello scrittore che non è portoghese», anche lui innamorato di Pessoa: «entrambi abbiamo cominciato a scriverne nei nostri libri. Cioè, io in un solo grande romanzo, lui qua e là, ma sempre in modo stitico». Anche Tabucchi è descritto come roso dall’invidia per il Nobel del suo collega. Ci sono riferimenti a Salman Rushdie che non si renderebbe conto di apparire ridicolo quando si fa fotografare con la sua bellissima moglie sculettante, e si riferisce probabilmente a Moravia («anche lui travolto da una spagnola altrettanto tremenda») quando scrive che morì mentre la sua donna era in giro con il suo amante.
Dall’uscita del libro – l’autore ha espresso il preciso desiderio di pubblicarlo presso la Cavallo di ferro e di pubblicarne la prima edizione proprio in italiano – si sono rincorse le voci sul possibile autore che si cela dietro lo pseudonimo. Il nome riportato come autore del testo, infatti, è Domingos Bomtempo, ma si è capito che è uno pseudonimo visto che il protagonista del romanzo di Saramago Una terra chiamata Alentejo si chiama Domingos Mautempo. Essendo il testo, a detta dei critici, anche un ottimo romanzo, Angiola Codacci-Pisanelli sull’ultimo numero de «L’Espresso» scrive: «in un Paese di dieci milioni di abitanti, dove già vivevano un gigante come Saramago e un genio sregolato come Lobo Antunes, quanti altri grandissimi scrittori potevano vivere contemporaneamente? Non più di tre, diremmo noi», e conclude individuando l’autore in José Luis Peixoto, trentaseienne portoghese capostipite di una nuova generazione di scrittori.
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