Nella storia della letteratura ci sono alcuni scrittori la cui fama è destinata ad essere perennemente legata all'opera che li ha resi celebri: si prenda ad esempio Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa, o I promessi sposi del Manzoni, spesso e volentieri inglobati da una tradizione didattica che etichetta e cataloga testi e autori i cui sforzi pare possano essere riassunti da un solo titolo. Tra questi certamente si trova anche Leonardo Sciascia, acclamato autore de Il giorno della civetta, indiscusso capolavoro della letteratura italiana, capace di muoversi in maniera sottile tra le ardite trame del potere istituzionale e non, inaugurando una stagione del giallo che in Italia mai prima di allora aveva realmente trovato un terreno fertile. Non un giallo qualunque né un semplice romanzo di mafia: l'intento di denuncia e la tensione morale lo rendono al contempo accessibile e complesso, drammatico ma quanto mai attuale. Tuttavia sarebbe un grave errore – nel caso di Sciascia e degli autori di cui prima – ridurre un'intensa carriera a un genere, ancor più a un testo per quanto rappresentativo o influente.
Lo scrittore di Racalmuto nato nel 1921 e morto nel 1989 (per coincidenza gli anni della nascita del PC italiano e del crollo del blocco sovietico) ha animato come pochi suoi colleghi contemporanei la vita culturale e politica del dopoguerra in un periodo in cui il ruolo dell'intellettuale godeva di un certo prestigio (basti pensare ai numerosi interventi di Pasolini o Moravia su «L'Espresso»), intervenendo nel dibattito pubblico da scrittore, saggista, poeta e giornalista. Nonostante ciò l'impasse in cui si ritrova l'Italia degli anni '80 che porterà al passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica determina la rottura del sodalizio fra mondo intellettuale e società. Lo stesso Sciascia, ad esempio, abbandona la forma del romanzo per dedicarsi preminentemente alla saggistica, concentrandosi inoltre sull'impegno politico (sarà deputato e membro della commissione d'inchiesta per l'omicidio di Aldo Moro). Nello stesso periodo nell'universo letterario esplode il fenomeno del postmodernismo: Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino ('79) e soprattutto Il nome della rosa di Eco ('80), considerati i testi apripista al nuovo genere, inaugurano una nuova stagione del romanzo italiano e colmano il vuoto creato dalla crisi della Einaudi proprio in quegli anni. Sciascia dal canto suo rimane critico verso le derive del mercato e la massificazione del libro. Si avvicina alla Adelphi, casa editrice che propone testi provenienti da una cultura mitteleuropea lontana anni luce dagli orizzonti letterari italiani, e intensifica i soggiorni all'estero, a Parigi specialmente, dove casualmente si imbatte in una datata edizione de Le Martyre de Saint Sébastien di D'Annunzio, nella quale la dedica autografa recita:
«À Fernand Charles Ecot. Chaque flèche est pour le salut. Gabriele D'Annunzio, 7 juin 1912+1.»
La superstizione di D'Annunzio certamente, ma non solo. L'iscrizione "1912+1" si trasforma in una vera e propria entrée en matière, un pretesto utilizzato da Sciascia per avventurarsi in un anno particolare, quel 1913 appena precedente allo scoppio della Grande Guerra in cui si svolge la vicenda del racconto. Già dall'epigrafe al testo dell'autore siciliano, tratta da La passeggiata di Palazzeschi, è chiarito l'intento di un complice e necessario vagare nel tempo con il lettore:
«- Andiamo?
- Andiamo pure.
- Torniamo indietro?
- Torniamo pure.»
- Torniamo indietro?
- Torniamo pure.»
E all'improvviso il vagare si trasforma in divagare: a dispetto di ogni aspettativa la scrittura di Sciascia si riempie di riferimenti a opere misconosciute e di citazioni che in poche righe spaziano da Léon Blum a Jaufré Rudel, da Giovanni Ameglio ad Aleardo Aleardi, passando attraverso il patto Gentiloni, il "mite Pascoli" e la declamata quarta sponda, don Luigi Sturzo e il non expedit di Pio IX. Le prime pagine di 1912+1 sono un denso turbinio di nomi che hanno come scopo quello di presentarci in qualche modo il contesto storico che fa da sfondo agli avvenimenti principali, introdotti senza alcun preavviso o evidente frattura nel testo come segue:
«8 novembre 1913: la contessa Maria Tiepolo, moglie del capitano Carlo Ferruccio Oggioni, uccide l'attendente del marito, il bersagliere Quintilio Polimanti.»
Una data e un fatto di cronaca: si passa così improvvisamente dalla circostanza storica a quella personale e giudiziaria realmente accaduta della contessa Tiepolo, accusata di aver ucciso il suo presunto amante Quintilio Polimanti nel momento in cui quest'ultimo, preso da un'inconsueta e focosa passione, aveva tentato di possedere la donna in assenza del marito impegnato in obblighi militari. Ciò che segue non è altro che la storia del processo con tanto di stravaganti deposizioni, esilaranti interventi oratori, goffi e improvvisati periti; il tutto intervallato da giocose e ulteriori citazioni dei vari Foscolo, De Amicis, D'Annunzio, Joyce, Stendhal, Huxley, Marinetti, Borges e moltissimi altri. L'intero caso giudiziario (ossia la trama) così come l'analisi dei personaggi (ossia l'aspetto psicologico e morale) perdono qualsivoglia importanza di fronte a questo puro divertissement filologico ed erudito messo in atto dall'autore: la forma del testo, un ibrido tra racconto e saggio, esclude in quanto tale ogni coinvolgimento psicologico. Gli unici residui di riflessione legati al caso Tiepolo sono il tema della premeditazione e l'incombere del patto Gentiloni, qui descritto da Sciascia come grimaldello di un intero periodo storico:
«Vicinissimo era il patto Gentiloni, il suo levarsi a baluardo dell'istituto familiare che la folle ricerca della felicità minacciava: e lo approvavano anche quegli stessi che follemente la felicità inseguivano: i borghesi di una improvvisata, amorfa, quantitativamente indefinita ma certamente maggioritaria borghesia.»
In virtù dell'opinione espressa dall'autore è facile intuire il finale; la contessa viene infatti assolta per aver sì sparato ma solo per autodifesa e per salvaguardare l'onore. È il trionfo della borghesia. Il finale della vicenda non coincide però con quella del testo: le ultime dieci pagine sono occupate in effetti da una lunga appendice in cui Sciascia ammette l'intento prettamente ludico del testo e rivela le sue fonti attraverso una nota dai toni particolarmente ironici e originali:
«Già sufficientemente gremito di citazioni, richiami e allusioni, non ho voluto gravare questo testo (un modo per non chiamarlo racconto) di rimandi a note esplicative e bibliografiche: a che la lettura scorresse senza gli inceppi, per l'occhio e per la mente, di quei numeretti o altri segni che si trovano nei libri diciamo di scienza: necessità di cui gli autori assolvono , è da credere, con delizia; ma non molto deliziando i lettori, quando a grandine numeri e segni cadono sulla pagina. Ho pensato dunque di relegare qui, senza alcun segno o numero che le colleghi al testo, le poche note che possono interessare il lettore.»
In sintesi: la trama diviene un pretesto per parlare di altro, il racconto in sé non ha proprio nulla da raccontare, il lettore è tratto in inganno. L'autore di 1912+1 dà prova, attraverso una prosa complessa ma brillante, di un'innata capacità di adattamento a ogni forma letteraria e di un'enorme maturità intellettuale e artistica. In questo perverso gioco di ipercitazionismo e metascrittura e secondo un'inedita forma di racconto-saggio, Sciascia sembra avvicinarsi come non mai a quell'universo postmoderno che aveva ampiamente criticato, decostruendolo e plasmandolo a suo piacimento, proponendone una versione personalizzata, colta e arricchita. Uno scrittore poliedrico e complesso insomma, un vero peccato doverlo ricordare solo per Il giorno della civetta.
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