17 dicembre 2014

La crisi del sapere umanistico

Aldo Giannulli

In un recente articolo di Aldo Giannulli, dall'eloquente titolo La crisi del sapere umanistico, ci si interroga in merito alla regressione delle materie umanistiche nelle scuole e nelle università. L'argomento è davvero calzante essendo in diminuzione un po' in tutto l'Occidente, il peso delle materie e del sapere umanistico in generale. In Italia, come sappiamo, il fenomeno è ancor più vistoso, ma anche nel resto d'Europa il problema è piuttosto serio.

Giannulli fa correttamente notare come le materie umanistiche stiano scomparendo all'interno delle università anglosassoni e di come l'interesse degli studenti verso filosofia, storia e lettere sia in diminuzione, essendo materie sempre meno richieste. In Italia è stato eliminato l'insegnamento della storia dell'arte, il greco e il latino dei licei è sempre meno studiato e la storia si impantana nelle nozioni perdendo puntualmente l'appuntamento, al termine del ciclo di studi, con le vicende della seconda guerra mondiale e del dopoguerra; per non parlare della regressione grammaticale: gli errori ortografici e sintattici sempre più presenti nei testi scritti e persino nei titoli dei giornali! Quante volte abbiamo scritto, anche su queste pagine, della diminuzione del numero di persone che leggono libri e della crescente incapacità nel comprendere un testo scritto da parte di diplomanti e laureati. Sul fronte politico, peggio che andare di notte, per cui è indicativa la battuta dell'ex ministro Tremonti di qualche anno fa: "Con la cultura non si mangia". Infine è di poche settimane la dichiarazione del Ministro della cultura francese Pellerin che candidamente ammette di non leggere libri da due anni perché le manca il tempo.

Le cause di questo disastro procurano, ovviamente, un fenomeno a catena per cui i cittadini sono sempre meno interessati ai libri, alla cultura e a tutto ciò che ruota attorno alla riflessione e all'approfondimento: i teatri chiudono, i film d'essai hanno sempre meno pubblico, la lirica è appannaggio di un'elite... In questo appiattimento orizzontale anche l'arte si adegua, i musei per attrarre pubblico si spettacolarizzano e i festival sono costretti a richiamare nomi noti al pubblico televisivo per ottenere un riscontro. Così è semplice, in un periodo di tagli al bilancio, colpire tutti i comparti che riguardano la cultura e il sociale (ma quello è un altro aspetto del medesimo problema).

Per comprendere meglio la gravità di questa tendenza faccio notare come, ad oggi, una delle ragioni per cui gli scienziati italiani sono molto richiesti all'estero, soprattutto negli Stati Uniti, è legato anche alla nostra preparazione scolastica; i fisici in particolare rispetto ai colleghi americani focalizzano meglio i problemi. Questo "dono", che rivaluta la tanto bistrattata scuola italiana e in special modo i licei, nasce dagli ultimi scampoli di sapere umanistico ancora presenti nei programmi scolastici. Ciò nasce dal fatto che nei college americani si studiano le materie in modo specifico, senza allargare l'orizzonte alle ragioni storiche e filosofiche: il sapere umanistico appunto.

È dal dopoguerra che si inseguono i modelli d'oltreoceano includendo anche quelli relativi all'orientamento scolastico e culturale. Così l'Università che una volta preparava gli studenti in cinque anni, oggi con la triennale e la specializzazione, scarta molte materie "secondarie" mantenendo quelle strettamente tecniche. In maniera forse un po' riduzionistica potremmo anche dire che questa epoca è senza dubbio il trionfo della tecnica a scapito delle arti umanistiche. Così in questa "moda" che appiattisce e svuota di valore le nuove generazioni c'è una causa prima che secondo Giannulli risiede nell'incapacità dei professori e degli intellettuali di sapersi rinnovare, di aprirsi ad un sapere nuovo e più appetibile. Condivido solo in parte questa critica e considero persino banale contenere le cause a tale aspetto perché il problema, a mio avviso, è ben più profondo e risiede in un argomento tabù: il trionfo del capitalismo.

Senza voler richiamare nostalgie filo marxiste (che non appartengono al mio retroterra culturale) vorrei provare ad analizzare questo aspetto attraverso un elemento inoppugnabile: la nostra epoca è dominata dal capitalismo estremo, talmente estremo – come l'attualità conferma - che ogni aspetto della nostra vita è scandito da una valutazione economica. Partendo dal debito pubblico che pende su ogni individuo, passando alle misure economiche e alle valutazioni esistenziali, tutto ha una matrice numerica che estromette quella culturale e affettiva. Così la misura in cui si considera l'uscita di un film, l'importanza di una mostra o la qualità di una scuola rientra sempre in una valutazione economica: conviene, è sostenibile economicamente?

Nel pensiero capitalistico odierno, cioè quello neoliberista (la vera essenza nel contemporaneo), l'applicazione di tali teorie alle politiche nazionali e locali non contempla né la conoscenza umanistica né l'aspetto più propriamente "umano". Come insiste il filosofo Diego Fusaro, la cultura e la riflessione rappresentano l'antitesi dell'Homo economicus, proteso alla ricerca spasmodica della materialità e di un eterno presente, che di fatto estromette una progettualità futura. Il tempo della lettura, dello studio e dell'approfondimento, in quanto tempo rallentato e opposto alla velocità del presente, appare superato. Ogni atto pensato, valutato e soppesato da un'argomentazione viene spogliato da una congenita "fretta pragmatica" che partorisce soluzioni tecniche. Ciò che resta ancora in vita del sapere viene al più relegato a "prodotto culturale": prodotto appunto, atto a produrre economia e non una vera e propria conoscenza.

Chi legge queste pagine possiede certamente quella sensibilità verso la conoscenza e la bellezza che consente di soppesare l'importanza di tale discorso. Ma in un mondo che avanza sommergendo tutto, salvo poche sacche di resistenza, viene certamente spontaneo considerare che "non esiste soluzione". In genere si risponde a tale fatalismo affermando semplicisticamente che tutto dovrebbe partire dalle scuole, che il trend andrebbe invertito e via di questo passo... Personalmente non mi sembra convincente abbandonarmi a tali frasi: speriamo che qualcosa migliori, speriamo che le nuove generazioni si ravvedano, perché credo in una versione delle cose completamente diversa.

Sappiamo per certo che ad ogni crisi subentra un periodo di rinnovamento e ascesa. L'intera storia umana mostra i chiari segni di andamenti ciclici che pervadono tutte le culture: yin e yang, giorno e notte, i kalpa induisti (i cicli cosmologici) sino all'Eterno ritorno nietzschiano o ai "corsi e ricorsi storici" di Vico. La storia conferma tutto, ma solo analizzando i comportamenti umani, le nuove mode e persino gli eventi politici, possiamo senza ombra di dubbio dire che queste cose fanno parte della natura umana. Se oltre all'amara consapevolezza del declino contemporaneo si comprende che la storia non permane mai troppo a lungo in una condizione, si avrà forse la chiave per osservare con distacco l'evolversi inevitabile del presente. Ciò che avviene sembra far parte di quell'immensa ruota di costumi, sensibilità e coscienza che porta oggi ad invertire il peso di un sapere che un tempo sembrava inossidabile. Ed è in questa stoica consapevolezza delle ciclicità che va inquadrata l'inevitabilità della crisi del sapere umanistico.

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