Ritratto di Bufalino (dal libro In fondo agli occhi. Ritratti siciliani di Arturo Patten - Edizioni di passaggio editore) |
Ci sono persone che sconvolgono le altrui esistenze attraverso i dettami del loro stile di vita o la fascinazione della loro arte; proprio come Alain de Botton suggeriva nel titolo di un famoso libro su Proust, così è avvenuto per chi ha avuto il pregio di conoscere Gesualdo Bufalino. Tra coloro cui è toccata questa invidiabile sorte c’è Giovanni Iemulo, comisano, amico dello scrittore e bibliotecario della Fondazione Bufalino.
A Comiso le persone conoscevano Bufalino come “U prufissuri”, il professore, poiché aveva insegnato per tanti anni presso le scuole superiori. Tutti erano al corrente della sua passione per i libri perché ne “divorava” in grande quantità, mentre altri conoscevano persino l’interesse per la scrittura, avendo regalato ad amici libriccini con alcuni suoi scritti. Nessuno però sapeva che Dino - nome affettuoso con cui gli amici d’infanzia come il pittore Salvatore Fiume lo chiamavano abitualmente - in realtà nascondesse un romanzo che in poco tempo l’avrebbe reso celebre: Diceria dell’untore, vincitore del premio Campiello nel 1981. La vittoria non cambiò soltanto le sorti dello scrittore, ma anche quella della piccola casa editrice di Palermo, la Sellerio, che grazie al fiuto di Elvira Sellerio e Leonardo Sciascia proiettarono la casa editrice verso una diffusione nazionale.
Giovanni Iemulo conosceva lo scrittore per la sua popolarità, a volte lo incrociava per le vie del paese intento a comprare un quotidiano o a far la fila alla Posta; oppure nel pomeriggio lo vedeva dirigersi verso il circolo culturale Casmeneo di Corso Vittorio Emanuele, dove giocava a carte con gli amici commentando i risultati delle partite di calcio. Bufalino seguiva anche il calcio, anche se non lo aveva mai praticato a causa di un polmone danneggiato dalla tisi; e se dapprima aveva tifato Juventus, successivamente aveva preso in simpatia la squadra della capitale, la Roma. Certamente un bizzarro mutamento di casacca che nessun tifoso gli avrebbe mai perdonato…
L'ingresso del circolo culturale "Casmeneo" (foto di Diego Barucco) |
Un pomeriggio di gennaio del 1988 si inaugurava a Siracusa il nuovo Museo Archeologico Paolo Orsi, Bufalino era stato invitato assieme alla moglie a presenziare. Salvatore Schembari, amico comune, s’era offerto di fare da autista allo scrittore (Bufalino non aveva mai preso la patente) e chiese anche a Giovanni di unirsi a loro. Durante il viaggio, lo scrittore chiacchierò col giovane compaesano su tantissime cose, mostrandosi interessato alla fotografia (Giovanni a quel tempo si occupava di un progetto fotografico sull’architettura rurale nel ragusano), sull’attualità e ovviamente sulla letteratura. La sua vasta cultura unita ad un carattere estremamente mite, avrebbe affascinato qualsiasi interlocutore poiché si mostrava non come un intellettuale snob, ma come un vecchietto gioviale di grande curiosità. Giunti a Siracusa presso il “Jolly Hotel”, ad attenderli c’era un uomo dall’aspetto severo: il grande Leonardo Sciascia. Quella fu l’unica volta che egli vide insieme i due grandi amici, poiché l’anno successivo lo scrittore di Racalmuto morirà improvvisamente.
Dopo quella giornata siracusana l’amicizia fu più stretta e Bufalino, durante la sua visita quotidiana presso la Biblioteca Comunale dove Giovanni lavorava, si intratteneva per scambiare due parole con il nuovo amico. Nel 1991 un altro amico, Giuseppe Digiacomo, assessore alla cultura del Comune di Comiso, lo invitò a donare 3000 volumi della sua collezione, nella speranza che fossero giustamente fruiti dal pubblico. Ma il Comune inizialmente relegò i libri nel chiuso di una stanza, lasciandoli pressoché inutilizzati. Solo tre anni dopo lo scrittore ritrovò la fiducia (confessò più volte la sua amarezza per l’infelice trattamento riservatogli) donando altri 1500 libri e manoscritti che costituiscono il cuore della collezione. Giovanni quindi fu trasferito presso i locali della Fondazione, cominciando a catalogare e ad organizzare il patrimonio dello scrittore. La cura e l’attenzione che il giovane amico riponeva fu certamente notata da Bufalino che modificò le sue abitudini quotidiane abbandonando le frequentazioni del Circolo e le giocate a carte: «Forse perché nel tempo aveva cominciato a considerare la sua Biblioteca come una seconda casa, - ci dice Giovanni Iemulo - dove c’era una parte di sé. Oramai era quello il luogo di appuntamento per le scolaresche e i giornalisti.» D’altronde nel Malpensante aveva scritto: «Biblioteche, musei, cineteche... Non amo che camposanti.» L’ironia delle sue parole, in un certo qual senso, conduce sempre ad una verità capovolta che lo scrittore ama enfatizzare.
L'interno del vecchio mercato cumunale, sede della Fondazione Bufalino (foto di Diego Barucco) |
Scriveva abitualmente della sua stanza, avendo cura di dare due giri di chiave alla sua porta affinché la madre (con cui convisse sino alla morte) non invadesse l’intimità dei suoi pensieri. Della scrittura infatti egli pensava che: «…nell’atto stesso in cui un autore si umilia alla superbia di dire “io”, come fa a non sentirsi inerme, spogliato, simile a una recluta nel mattino della visita di leva?» E’ il senso di pudicizia insito nel concetto stesso della sua scrittura la chiave per capire il suo rapporto con essa, quella stessa pudicizia che l’aveva inizialmente preservato dall’intenzione di pubblicare Diceria dell’untore.
Utilizzava una biro rossa e una nera, apportando mille correzioni che poi sarebbero passate al vaglio della macchina da scrivere, una Olivetti lettera 35. La usava sol quando doveva presentare le copie definitive di un romanzo, apportando piccole modifiche e cancellature col bianchetto, o usando bigliettini incollati per coprire il refuso. Ma nel 1995 la sua Olivetti smise di funzionare, aveva un problema ai tasti e necessitava l’intervento di un tecnico che tardava a venire. Fu allora che Giovanni gli suggerì l’uso del computer per proseguire la stesura in bella copia di Tommaso il fotografo cieco. Egli provò a digitare le parole davanti a quel monitor a lui estraneo, sicché istintivamente batteva con forza le dita sulla tastiera del PC come fosse una macchina da scrivere, percependo il nuovo mezzo scomodo e del tutto inadatto; al che del tutto infastidito imprecò: «Questa diavoleria!» Fu così che Giovanni digitò per lui sotto dettatura, alcuni capitoli del romanzo, finché il tecnico non rimise a posto l’amata Olivetti.
La Olivetti Lettera 35 di Bufalino (presso la Fondazione Bufalino) |
Questo aneddoto su Tommaso il fotografo cieco offre lo spunto per aggiungere un dettaglio importante sulla sua genesi. Il romanzo nacque a seguito di una richiesta del quotidiano «La Stampa» che desiderava dallo scrittore un suo scritto, un romanzo appunto che Bufalino inizialmente non aveva ancora in mente. Ma poco tempo dopo ebbe un’idea: un romanzo il cui protagonista fosse proprio un fotografo cieco, un progetto che raccontò agli amici i quali consideravano la storia una stranezza. Poteva mai esistere un fotografo cieco? «Sì, certo che esiste. E’ un fotografo sloveno che prima dello scatto si fa descrivere le immagini da un suo assistente…» disse Giovanni. Il giorno dopo infatti gli consegnerà una rivista dove si parlava di Evgen Bavcar, un fotografo rimasto cieco da bambino, che eseguiva immagini originalissime: forse era proprio quello l’elemento che gli mancava per portare avanti il progetto, che nacque col titolo ossimorico che oggi tutti conosciamo. Dopo la pubblicazione avvenuta l’anno successivo, il fotografo siciliano Ferdinando Scianna gli spedì un catalogo del “Tommaso” sloveno, quasi a dimostrare tardivamente di conoscerne l’ispirazione…
Il mondo culturale di Bufalino era scandito ovviamente da letture di libri, dalla visione di film d’autore registrati in TV grazie al suo videoregistratore e dall’ascolto di dischi in vinile che collezionava a centinaia. Tuttavia quando Claudio Abbado, direttore d’orchestra ed amico, gli regalò alcuni suoi CD, per poterli ascoltare fu costretto ad “adeguarsi” all’uso del nuovo supporto. Inoltre la sua riservatezza lo portava a rifiutare i numerosi inviti a comparire in TV che da ogni parte giungevano, tuttavia nel 1995 accettò un’intervista di Piero Chiambretti per la trasmissione Il laureato, un’eccezione che dapprima aveva destato in lui molti dubbi; il giorno precedente infatti aveva confessato a Giovanni di “temere” un po’ l’irriverenza del presentatore. Ma quando Chiambretti si presentò puntuale a casa dello scrittore, mostrò subito un atteggiamento riverente e pacato, cadendo persino nella contro-ironia di Bufalino che a un certo punto, parlando delle jacqueries mise in difficoltà l’intervistatore:
Bufalino: «Le jacqueries erano stragi di contadini, avvenute nel 1300…»Chiambretti: «Questo in Francia, evidentemente…»Bufalino: «In Francia, sì… Mi meraviglio che lei, che è un laureato…»Chiambretti: «No, non sono laureato, sono laureando fuori corso da venticinque anni…»Bufalino: «Allora il programma perché non l’ha chiamato “Il laureando”?»Chiambretti: «Perché è un complesso di colpa, il mio, capito?»Bufalino: «Sto scherzando…»
Forse fu proprio la concentrazione mediatica verso quest’uomo ad aver suggerito alla dirigenza della sinistra siracusana la sua candidatura a sindaco di Siracusa nel 1994: egli ovviamente declinò la proposta raccontandola agli amici con tono di stupore: «Ma questi, cosa vogliono da me?»
Contrariamente a Sciascia, non s’era mai occupato apertamente di politica e società, salvo essere stato trascinato dai giornali in polemiche a volte fin troppo sciocche: nel ’92 la rivista «L’Indice» pubblicò una foto di Sciascia e Bufalino titolandola: “I terroni: pur di non lavorare scrivono”, un’ironia che lo aveva divertito ma che in verità lo amareggiava poiché toccava le corde del suo orgoglio siciliano. Per questa ragione definì Umberto Bossi: «Un fritto misto tra il feroce Saladino e Capitan Fracassa.»* Nell’ammettere un vistoso distacco verso la politica, dichiarò un totale pessimismo tanto da avanzare una proposta: «…per legge si chiudessero in una cella a turno i politici italiani con pane, acqua e una decina di libri scelti per bene. A Bossi e forse anche a Berlusconi imporrei un libro di Henry Thoreau, Walden, sulla vita nei boschi… […] Poi, dopo dieci giorni li sottoporrei ad un esame.»*
Piazza fonte Diana a Comiso (foto di Diego Barucco) |
Costretto a viaggiare spesso tra Comiso e Vittoria, due paesi separati da una manciata di chilometri; andava quasi tutti i giorni a trovare la moglie, sua ex allieva, a Vittoria poiché a seguito di un ictus aveva scelto di vivere in casa dei parenti. Strana scelta la loro, quella di vivere un matrimonio da separati, forse perché in fondo il vero amore di Bufalino erano i libri? La sorte in questo caso gli ha giocato un brutto scherzo, facendolo morire il 14 giugno del 1996 d’una morte improbabile per un uomo che certamente non la sfidava. A causa di un banale incidente automobilistico avvenuto proprio in quel tragitto, lo scrittore si era procurato un trauma toracico che in poche ore lo fece spegnere presso l’ospedale di Vittoria. Una morte a sorpresa la sua, proprio come quella descritta nel “Tommaso” e citata in un articolo di queste pagine, che rende la sua fine ancor più assurda e sconvolgente. Poi le voci d’un contrasto con la Chiesa, che osteggiava i funerali di un ateo convinto, richiamano le parole scritte nel Malpensante: «È un bluff? Non è un bluff? Fra poco muoio e lo vedo.» sciogliendo finalmente in lui l’eterno dubbio sull’ipotetica esistenza divina.
Giunti alla fine del nostro disquisire, abbiamo posto la domanda proprio a Giovanni Iemulo su come Bufalino abbia cambiato la sua di vita: «Grazie a lui lavoro per la Fondazione Bufalino, che altrimenti non sarebbe mai nata, portando avanti la sua memoria e il suo pensiero. Ma sono state le sue opere a modificare in me l’approccio alla letteratura, il valore da dare alle parole, l’importanza dei ricordi e dei sentimenti… Non riesco a descrivere con parole mie, perché solo lui è riuscito a descrivere l’amore per i libri e la vita.»
*«Corriere della Sera» del 17 agosto 1995
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