Il mio nome è Starlet. Non so perché i miei mi abbiano chiamato così. Nemmeno loro lo sanno. Non amano le cose facili, già collaudate.
Comunque Starlet mi piace. È insolito, diverso come me. Anche la figlia di Marisa Berenson si chiama Starlet. Mi diverte la faccia che fa certa gente quando sente il mio nome. Se mi chiamassi Laura o Sabrina, nessuno ci farebbe caso.
E’ il biglietto da visita delle protagonista di Fluo, storie di giovani a Riccione. Il romanzo d’esordio di Isabella Santacroce, protagonista che racconta in prima persona la sua vita nell’estate romagnola, in quella Romagna in bilico fra il benessere capitalista e la tolleranza sinistroide.
Isabella Santacroce è venuta nella mia città, più volte, inquadrata in un’iniziativa che grosso modo suonava Scrivere donna, ammesso che Isabella si possa inquadrare. Non tutti gradirono la sua presenza: la titolare di una libreria – non voglio dire quale – ha definito la nostra Santacroce: «Provocatrice, insofferente….aveva sempre un’aria scocciata, a ogni domanda che le facevano, come se a rispondere ci facesse un favore». Isabella è forse una delle scrittrici più mediatiche che esistano in Italia: è famoso il suo look conturbante, sono famose le sue foto piuttosto spinte, è famosa la sua articolata carriera, dal DAMS bolognese all’organo liturgico, che la Nostra ha suonato, credo a Vienna. Una “ragazza-immagine”, anzi, una “scrittrice-immagine”. E’ un termine da discoteca, certo, né se ne potrebbero usare di più aulici.
Immagine: troppo, forse. Personaggio, troppo personaggio. E, in questi tempi in cui si cita Bufalino, non fa male ricordare uno dei più noti aforismi del professore di Comiso, che più o meno suonava: «Se diventi un personaggio, smetti di essere una persona».
Infatti è meglio parlare di letteratura, non di spettacolo. Il mondo di Isabella è miserabile, lercio, vizioso, quasi da verismo ottocentesco. Ma è ricco e pretenzioso come il mondo dei decadenti.
In Fluo così la voce narrante della protagonista descrive un particolare del “Bronx” dove vive la sua amica a Riccione: «sotto i miei piedi una grata di ferro. In fondo, le spade [siringhe dei drogati, ndr] usate si sprecano. Ogni volta aumentano e nessuno pensa a ripulire lo schifo».
Viene meno quel Nord Italia efficiente e austroungarico che i detrattori del Sud libertino e caotico difendono a spada tratta. Lo sballo è presente finanche nei discorsi più spiccioli. Frasi apparentemente insensate: l’amica in questione «è figlia unica», ma poi la protagonista fa accenno a un fratello tossico che fa va e vieni da San Patrignano. «La pelle incartapecorita da una vita di veleno». Tutto ciò fra promiscuità e ambiguità sessuali varie, tatuaggi, piercing, nichilismo, noia, una specie di vuoto esistenziale colmato da piaceri effimeri.
I romanzi successivi a Fluo non sono da meno, e anzi esasperano quel genere in cui l'effetto allucinogeno degli stupefacenti e dello "sballo", accompagnati da sesso e una discreta dose di violenza quasi folle, la fa da padrone, come in Destroy e Luminal. Nel primo romanzo, la parola destroy è ripetuta ossessivamente all'inizio di ogni paragrafo, insieme alle parole (inglesi) più disparate, con i paragrafi inframezzati da frasi tipo «leccatemi, bastardi non talentuosi, leccatemi». Nei romanzi posteriori si rasenta quasi il gotico, anche se è un gotico di fine Ventesimo secolo, come in Revolver, Zoo, Dark Daemonia. E poi c'è Lovers, un amore ambientato in una Roma che però è lontana dai lucchetti di Moccia e dai romanticismi giovanili - anche se mai troppo banali - di Claudio Baglioni e Antonello Venditti. In Isabella c'è sempre un che di ambiguo, torbido, chimico, trasgressivo. Un argomento, infine, che s'intrufola nelle opere di questa conturbante giovane scrittrice romagnola (ma il cognome è romagnolo?) è quello ecclesiale: dai commenti disincantati e quasi sprezzanti sui conventi e sui cortili parrocchiali in Fluo (tutte le ragazzacce un po' "piazzarole" fanno questi commenti), alle scene "in chiesa" piuttosto allucinate di Destroy, alla Madonna sulla copertina (Feltrinelli, ndr) di Luminal. Ciò richiama alla mente l'esperienza di Santacroce con l'organo liturgico suonato in chiesa dalla stessa scrittrice. Una religiosità seminascosta e dissacrante, che fa pensare.
C’era in questa catena una anello mancante: da dove nasce la letteratura santacrociana? Regina del Pulp anni ’90 (con Aldo Nove, Tiziano Scarpa, Sandrone Dazieri, Nicolò Ammaniti e altri), definita nevroromantica, ma lei non sa spiegare il motivo di questa definizione, o fa solo finta… nel suo autobiografismo superomista, iperconsumista e “maledetto” io mi identificai, nei miei ricordi di ragazzaccio della piazza, di bevitore di birrette in riva al mare di qualche porticciolo, di discotecaro a riposo, di frequentatore di donne di scarsa moralità, così come mi ero identificato nei «ragazzi di vita» pasoliniani… Quello che non avevo ancora scoperto è che tutto ciò affonda le radici nei precedenti storici di quella stessa Bologna (potrebbe essere anche Napoli, Genova o Catania, secondo la fantasia di chi legge), ma di qualche anno prima, e in particolare di Pier Vittorio Tondelli, scrittore acre, irriverente, blasfemo, “maledetto”, omosessuale e prematuramente scomparso a causa dell’AIDS, l’ultima peste del mondo occidentale. A metà strada tra Vasco Rossi (che è più un compagno di sbronza che un rivoluzionario) e Luciano Ligabue (suo compaesano), è il prodotto di quel “neo-maledettismo” anni ’70, che non era del tutto nuovo, giacché già in America la New Wave – in campo musicale-poetico – era qualcosa di simile. E, tornando a Pasolini, diremmo che l’intellettuale friulano ne è stato precursore prima di tutti. Che dire? Isabella e i suoi colleghi non hanno creato niente di eccessivamente nuovo: non era necessario. Ma è stato utile rispolverare quella letteratura un po’ nera, e un po’ pseudo-rozza che in Italia, in Europa e altrove, non è mai morta.
*Le immagini sono state concesse dal sito Intercom Scienze Fiction Station.
Policarpo A. Moncada
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