L’Estado Novo; gli infiltrati della PIDE; la guerra coloniale in Angola; Lisbona vista con gli occhi d’un De Sica lusitano. E ancora, Benfica, povertà spirituali che riempiono monolocali umidi, centrini all’uncinetto, vecchie nonne che parlano solo il galiziano. La rivoluzione del ’74.
Per quale motivo un italiano dovrebbe leggere questo melanconico cantore d’uno dei paesi più poveri e isolati d’Europa? Perché un medico psichiatra dovrebbe lasciare la moglie e il lavoro per dedicarsi esclusivamente e ossessivamente alla scrittura? Perché un passato defunto, che si vorrebbe cancellare, risale come un conato di vomito e torna a inquinare il presente?
Perché la scrittura di Lobo Antunes pulsa come cosa viva, perché la sua devozione fondamentalista alla lingua dona alle sue pagine il privilegio d’un’incandescenza raramente oggi riscontrabile. Perché nei movimenti che i personaggi dei suoi romanzi tracciano è leggibile un autobiografismo ch’egli sostituisce alla vita.
Una pendola non localizzabile, perduta fra tenebre di armadi, sgocciolava ore soffocate in un corridoio lontano, intasato da bauli di canfora, che portava a stanze irte e umide, dove il cadavere di Proust fluttuava ancora, spargendo nell’aria rarefatta un alito logoro d’infanzia. Le zie si installavano con difficoltà sul bordo di gigantesche poltrone decorate da filigrane di uncinetto, servivano il tè in teiere lavorate come custodie manueline e completavano la loro giaculatoria indicando con il cucchiaino fotografie di generali furibondi, deceduti prima della mia nascita in seguito a gloriosi combattimenti di trictrac e di biliardo, in Circoli Ufficiali malinconici come sale da pranzo vuote, dove Ultime Cene erano sostituite da stampe di battaglie.
– Se Dio vuole, il servizio militare lo farà diventare un uomo.
[…] Così che, quando mi imbarcai per l’Angola a bordo di una nave carica di militari per diventare finalmente un uomo, la tribù riconoscente al governo che mi concedeva gratuitamente l’opportunità di una tale metamorfosi comparve compatta sul molo, rassegnandosi in un impeto di fervore patriottico a subire gli spintoni di una folla agitata e anonima, […] venuta fin lí per assistere, impotente, alla sua stessa morte.
(In culo al mondo, Einaudi, 1996)
Lobo Antunes è nato a Lisbona nel 1942. Un’infanzia e un’adolescenza passate sotto la dittatura di Salazar, una laurea in medicina con specializzazione in psichiatria e la partecipazione, tra il ’70 e il ’73, alla guerra coloniale in Angola. Questi gli ingredienti biografici che costituiscono il malinconico sottofondo delle sue ciclotimiche composizioni.
Mio padre soleva spiegare che ciò che eravamo venuti a cercare in Africa non era denaro né potere ma negri senza denaro e senza nessun potere che ci dessero l’illusione del denaro e del potere […] mio padre soleva spiegare che ciò che eravamo venuti a cercare in Africa era trasformare la vendetta di comandare in ciò che fingevamo fosse la dignità di comandare. (Lo splendore del Portogallo, Einaudi, 2002)
Ha detto che le influenze maggiori nella sua opera vanno cercate nel cinema americano, in quello italiano e nella musica; ma sorprende sentirlo citare autori come Céline, Hemingway, Sartre, Camus, Verne e Salgari tra i suoi preferiti nell’adolescenza. Sorprende pensare che Scott Fitzgerald, Thomas Wolf e Georges Simenon abbiano influito così tanto, com’egli dichiara, nella sua formazione di scrittore.
Le sue sono composizioni parapoetiche dalla complessa architettura; sono usuali bruschi passaggi dalla prima alla terza persona, storie narrate per frammenti (come un puzzle che il lettore deve ricostruire), personaggi che si alternano a raccontare, ognuno dal proprio parziale punto di vista. La storia diventa una sinfonia musicale nella quale i personaggi, e lo scrittore con loro, vengono trascinati da una forza invisibile: «In un brutto libro, lo scrittore scrive ciò che vuole scrivere. In un buon libro lo scrittore scrive ciò che il libro vuole sia scritto», ha dichiarato.
Il “respiro”, l’enfasi poetica che incide le sue pagine è figlia d’un minuzioso quanto maniacale lavoro sulla scelta delle parole, ora significanti ora fonemi che strutturano il suono: «La parola carne è sempre la stessa, dipende dalle parole che si pongono prima e dalle parole che si pongono dopo. Perché le persone sentano il gusto in bocca io devo lavorare come un cane, fino a trovare le parole esatte prima e dopo».
[…] se avessero parlato, di sicuro avrebbero rivelato voci di tulle come quelle che negli aeroporti annunciano la partenza degli aerei, sillabe di cotone che si dissolvono negli orecchi come lische di caramella nella conchiglia del palato. (In culo al mondo, Einaudi, 1996)
La memoria. La memoria è il pungolo di Lobo Antunes. Vera o falsa che sia, la memoria vellica emozioni latenti, apre squarci di luce sulle tenebre del passato («Scrivo per correggere il passato. E ancora ho molto da correggere»):
Ma ieri, per esempio, abbracciato al tuo corpo mentre aspettavo che l’indulgenza della medicina mi liberasse dai sussulti della memoria, mi è sovvenuto un crepuscolo antico, nel cinquanta o nel cinquantuno, con le aiuole del giardino irrigate di fresco, il signor Fernando che, in maglietta, faceva ginnastica sul balcone, e un vortice di gatti nel cortile della cucina, mentre io me ne stavo appollaiato sul muro a fiutare le brezze di Monsanto e ad ascoltare i cavalli dei monarchici sconfitti che scendevano dalla montagna. (L’ordine naturale delle cose, Feltrinelli, 2001)
Una miriade di premi vinti, soprattutto fuori dal Portogallo, con il quale, quando si parla di letteratura, sembra che Lobo Antunes assuma una posizione polemica. Tra i premi anche quello che nel 2003 il presidente di giuria Vincenzo Consolo gli ha consegnato a Parigi: il Premio Internazionale Unione Latina di Letterature Romanze. Consolo aveva vinto il premio nel 1994 ed ha senz’altro influito nella scelta del portoghese, avendo con questi un’evidente affinità letteraria. Ma tra tutti i premi vinti manca ancora il Nobel – è da tempo che girano voci su una sua possibile vittoria – che consentirebbe a Lobo Antunes di “pareggiare i conti” con Saramago, in una rivalità mai apertamente dichiarata, ma mai smentita.
[…] di Tomar ricordo un fiume di cui mi sfugge il nome, una stanzetta angusta, addormentarmi per la noia cullata da un paio di voci che mi spulciavano la memoria, quel giorno di mio nonno all’ospedale, quel giorno del priore, quel giorno che noi, ricordi che cadevano a terra uno dopo l’altro con la leggerezza disorientata delle farfalle morte, pranzi con un retrogusto salato di dispiacere e anni rinsecchiti, la pioggia in Galizia […]. (Esortazione ai coccodrilli, Einaudi, 2005)
Il 25 novembre del 2006 al giornalista messicano che lo intervista per «La Jornada» rivela: «Quando avevo ventitre anni avevo terminato l’università, e mi misero in una unità di pediatria di bambini che stavano per morire, di malati terminali. Mi sono affezionato ad un bambino di quattro anni malato di cancro che si chiamava José Francisco, che era molto bello, aveva una voglia di vivere incredibile ma morì. Quando in un ospedale muore un adulto, vengono due uomini con una barella e lo portano all’obitorio coperto con un lenzuolo. Ma questo era appena un bambino. Vidi un uomo con un lenzuolo che lo caricò sotto il braccio. Io stavo sulla porta dell’infermeria in un corridoio grande ed ho visto l’uomo portare il bambino, e uno dei due piedi uscì dal lenzuolo, penzolando. Pensai: “scrivo per questo piede”. Ancora oggi penso che scrivo per quel piede lì».
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