Così dice Sam Waterston nell’efficace sceneggiatura d’un piccolo film di Woody Allen. Così sembrerebbe potersi dire per le storie del «casto», del «matto» e della «lesbica», secondo gli improperi che s’erano guadagnati, e che certo col caso e con la violenza, fisica o psicologica che sia, hanno combattuto tutta la vita: «L’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte».
José non ha niente della sregolatezza che sovente accompagna il genio dei letterati ottocenteschi. Scrive poesie, è vero, è molto intelligente, ma ha studi regolari e un carattere timido e riservato. E poi è colombiano, e Bogotà, dove è nato e dove risiede, non è Parigi. Non è l’Europa.
José non ha niente della sregolatezza che sovente accompagna il genio dei letterati ottocenteschi. Scrive poesie, è vero, è molto intelligente, ma ha studi regolari e un carattere timido e riservato. E poi è colombiano, e Bogotà, dove è nato e dove risiede, non è Parigi. Non è l’Europa.
La sua è una famiglia benestante e il commerciante Ricardo Silva, suo padre, è uno scrittore prestato al commercio, o un commerciante prestato alla scrittura; comunque sia ha garantito ai suoi sei figli un’istruzione e gli agi che i suoi floridi commerci gli hanno consentito. A poco a poco, però, una seduttiva latenza caliga certi pensieri di José, ogni tanto. Un corridoio di brumosi pensieri vellica stati d’animo disforici. Le cause sono le morti di Alfonso, Inés e Guillermo, tre dei suoi cinque fratelli.
Il 23 ottobre del 1884 José s’imbarca per l’Europa. A Parigi assiste alle lezioni del noto neurologo Charcot, più volte citato da Freud nei suoi scritti. L’anno dopo conoscerà e frequenterà Mallarmé e viaggerà ancora in Italia, Belgio, Olanda e Inghilterra. Tornato in Colombia ha modo di sfogare la sua plurima vena creativa, alimentata dalle scoperte europee. Pubblica con un certo successo le sue poesie e partecipa alla prima esposizione nazionale della Escuela de Bellas Artes de Colombia; José, infatti, è anche pittore.
Ma nel giugno del 1887 le cose si ribaltano. Suo padre, Ricardo, muore e José, unico maschio della famiglia rimasto in vita, è costretto a dedicarsi agli odiati affari economici. Viene fuori la verità: sono pieni di debiti e vivono al di sopra delle loro possibilità. Passano quattro anni di difficoltà economiche lenite dagli affetti dell’amatissima sorella Elvira: un amore esclusivo, ossessivo, che più d’un critico sostiene possa essersi spinto fino all’incesto. Curiosa vicenda per «el casto José», eufemismo col quale i detrattori avanzavano i loro dubbi sulla sua eterosessualità. Passati questi quattro anni, dicevo, un’altra disgrazia: Elvira muore. José per giorni non si alzerà dal letto, e quando lo farà sarà costretto ad affrontare l’umiliazione di non potere nemmeno pagare la sepoltura della sorella. È in questo periodo, mentre si accumulano cinquantadue cause contro la sua famiglia per i mancati pagamenti, che José scrive il suo capolavoro: Nocturno, dedicato a Elvira («Era el frío del sepulcro, era el frío de la muerte/Era el frío de la nada […]»). E mentre perde case e proprietà per il pagamento dei debiti quella bruma seduttiva torna a inquinargli i pensieri.
Tre anni dopo, nel 1894, s’intravede uno spiraglio. Un amico di famiglia gli concede l’opportunità di lavorare per la legislazione colombiana in Venezuela e José, poeta ormai famoso in tutto lo stato, accetta. Pochi mesi più tardi decide di prendersi una vacanza e torna a Bogotà, ma la nave ove s’imbarca naufraga e José, illeso, perde tutti i suoi manoscritti; soprattutto uno, il romanzo che stava scrivendo: De sobremesa. Tornato a casa, disperato, passerà due anni d’intenso lavoro per la ricostruzione del romanzo perduto e di varie poesie. Sono altri anni di stenti e di brumosi pensieri terminati la notte del 23 maggio 1896, quando José Asunción Silva poggia il becco della canna d’una pistola nel punto in cui – si dice – aveva segnato l’esatta localizzazione del cuore, chiesto il giorno prima ad un amico medico. Aveva trentun anni.
Se avessero potuto capire chi era veramente, se avessero visto al di là del suo aspetto trasandato e delle sue eccentricità, a Marradi nessuno lo avrebbe chiamato, come invece facevano tutti, «il mat’».
Dino Campana non è un ragazzo tranquillo: improvvisi scoppi d’ira, vagabondaggi e risse caratterizzano la sua adolescenza. Nel 1906 è a Genova, meta frequente delle sue fughe; quando rientrerà suo padre lo farà visitare da un illustre medico che autorizzerà il suo internamento in manicomio al compimento – mancavano pochi mesi – del ventunesimo anno d’età. Dino non ci sta e fugge, ancora. Viene arrestato in Francia e tradotto in manicomio, ad Imola. Rientrato poi in casa sotto la tutela del padre si imbarca per l’Argentina e da lì, pochi mesi dopo, sarà in Belgio, arrestato per vagabondaggio. Dopo un pellegrinaggio a piedi, da Marradi a Verna, il luogo delle stigmate di San Francesco d’Assisi, è di nuovo in giro: Firenze e Bologna. Nel 1912 «il mat’» pubblica per la prima volta, su un giornale studentesco. Ma è il 1913 l’anno della “svolta”, Campana è a Genova e legge «Lacerba», la celebre rivista; impressionato si recherà subito a Firenze, a conoscere Soffici e Papini. Lo spirito dissacrante del Futurismo è in piena sintonia con Campana, che decide di consegnare ai due intellettuali Il giorno più lungo, prima versione della sua più nota e unica opera compiuta. Della sorte di quel manoscritto non si seppe più nulla per cinquantotto anni. I dettagli della scomparsa sono molti e contraddittori (fu probabilmente Soffici a perderlo durante un trasloco) e comprendono anche, ovviamente, le accese reazioni di Campana (pare che disse a Papini: «verrò a Firenze con un buon coltello e mi farò giustizia ovunque vi troverò»). Tornato a Marradi, il suo «selvaggio borgo natio», riscrive, a memoria, tutti i testi del manoscritto perduto che diventeranno i Canti orfici. Anzi i Canti Orfici, come Campana s’era intestato d’imporre all’editore Ravagli, pretendendo che anche nel contratto il titolo dell’opera fosse con entrambe le maiuscole, e dando ragione a quell’aforisma di Warhol: «un poeta può sopravvivere a tutto tranne che a un errore di stampa». Il libro viene stampato a sue spese e suscita quell’indifferenza tipica delle grandi opere. Campana vende alcune copie nei caffè di Firenze e Bologna e, dicono le leggende, a volte decurtate di qualche pagina che strappava dicendo: «tanto questi tu non li capiresti!». Una di queste leggende vuole addirittura Campana consegnare a Filippo Tommaso Marinetti la sola copertina!
Ma Campana sta male: le risse e le fughe continuano a testimonianza della sua instabilità fino a quando, nel 1916, conosce Sibilla Aleramo (già amante di Cardarelli, Boccioni, Papini e, più tardi, anche Eleonora Duse), suo grande e turbolento amore, donna-ciclone degna dei suoi versi: «– Oh la divina/Semplicità delle tue forme snelle – /Non amore non spasimo, un fantasma». Molte lettere (che costituiranno il libro recentemente pubblicato Un viaggio chiamato amore), qualche incontro, molte scenate e un arresto. Questo il bilancio di un rapporto che si chiuderà quando si apriranno le porte del manicomio di Castel Pulci. Era il 1918, la “prima” vita di Dino Campana era finita, la “seconda”, durata quattordici anni, è quella in manicomio conclusasi nel 1932.
Nel 1971 in una polverosa soffitta di casa Soffici viene rinvenuto un manoscritto: è Il giorno più lungo, l’originale dei Canti Orfici di Dino Campana che è ormai un autore di culto e vive con serenità la sua lunga “terza vita”.
Valerie Jean Solanas nasce nel 1936 nel New Jersey e qui trascorre una triste infanzia caratterizzata dagli abusi sessuali di suo padre. Nel 1940 i genitori divorziano e Valerie segue sua madre a Washington ove, nove anni più tardi, si risposerà.
Valerie Jean Solanas nasce nel 1936 nel New Jersey e qui trascorre una triste infanzia caratterizzata dagli abusi sessuali di suo padre. Nel 1940 i genitori divorziano e Valerie segue sua madre a Washington ove, nove anni più tardi, si risposerà.
Nel 1951 a quindici anni Valerie rimane incinta di un marinaio, ma il figlio che nascerà, David, verrà dato in adozione. Nonostante le difficoltà (viveva sola) riuscì a laurearsi in psicologia all’Università del Maryland; ma Valerie già allora dava chiari segni di riluttanza alla vita borghese, tanto che prese a vagabondare vivendo di elemosine e prostituzione.
Nel 1966 approdò al Greenwich Village e scrisse il dramma teatrale Up Your Ass ed il manifesto SCUM, acronimo che sta per Society for Cutting Up Men (Società per l’eliminazione dell’uomo) e nella quale si legge: «In questa società la vita, nel migliore dei casi, è una noia sconfinata e nulla riguarda le donne: dunque, alle donne responsabili, civilmente impegnate e in cerca di emozioni sconvolgenti, non resta che rovesciare il governo, eliminare il sistema monetario, istituire l’automazione globale e distruggere il sesso maschile».
È sempre una vita al margine, la sua, vivendo di espedienti e prostituzione fino a quando non entra in contatto con Andrew, un omosessuale di famiglia slovacca molto chiacchierato. Andrew aveva messo su uno staff di giovani coi quali produceva, in un grande stabile al 33 di Union square, quadri e stampe varie. Aveva fatto anche qualche film, Andrew, ch’egli audacemente definiva arte, ma che altri avevano bollato come pornografia. È per tale ragione che quando Andrew legge il testo che Valerie gli consegna, Up Your Ass, benché incuriosito dalla carica eversiva, pensa che sia la polizia, che vuole incastrarlo. Nel frattempo Valerie conosce l’editore francese Maurice Girodias, già editore di William Borrougs, Henry Miller e Jean Genet. Girodias pagò a Valerie un acconto perché lei scrivesse un racconto basato sul suo manifesto.
A seguito del silenzio di Andrew Valerie cominciò a telefonargli ossessivamente per chiedergli la restituzione del testo e, dopo insistenze, Andrew ammise di averlo perso. Valerie, furente, pretendeva un risarcimento ed Andrew gli propose una parte in uno dei suoi film. Ricevette 25 dollari per recitare in I A Man, poi fece anche il successivo, Bikeboy.
Nella primavera del 1968 Valerie, in forti ristrettezze economiche, chiese un prestito a Paul Krassner, editore del periodico underground «The Realist» dicendogli: «devo sparare a Girodias». Comperò una pistola e si recò all’Hotel Chelsea, dove alloggiava Girodias. In albergo gli dissero che era fuori e sarebbe tornato il giorno dopo, Valerie decise allora di recarsi da Andrew. Dopo un’attesa ed il poco cortese atteggiamento dei collaboratori di Andrew, che sapevano delle ossessionanti insistenze di Valerie nei confronti del loro amico, all’arrivo di Andrew Valerie estrasse la pistola e gli sparò contro tre colpi.
Era il 3 giugno 1968, Valerie Solanas aveva sparato a Andy Warhol. L’artista dirà, dopo la degenza in ospedale e il coma, con il suo caratteristico geniale cinismo: «Prima che mi sparassero, ho sempre avuto il sospetto che, invece di vivere un’esistenza reale, stessi guardando la televisione. Nel preciso istante in cui mi sparavano seppi che stavo guardando la televisione».
Il manifesto SCUM fu poi pubblicato dalle edizioni Olympia Press di Girodias, con un testo suo e uno di Paul Krassner. Nel 1971, mentre un parente di Soffici rinveniva il manoscritto scomparso di Campana, Valerie esce dal carcere e riprende a tormentare Warhol. Diciassette anni più tardi, nel 1988, a 52 anni, Valerie muore per un enfisema in un alberghetto di San Francisco.
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