Trent’anni fa, il 13 giugno del 1979, si spegneva in una clinica a New York, a soli 34 anni, l’artista rock sperimentale Efstratios Demetriou, italianizzato Demetrio Stratos. Il mondo musicale lo commemorò con una mobilitazione collettiva imponente, più di 60.000 spettatori e un centinaio di musicisti del panorama italiano riuniti in un mega-concerto programmato per il 14 dello stesso mese all’Arena di Milano, allo scopo di raccogliere fondi per la sua malattia. Ma la notizia inaspettata della sua scomparsa, si abbatteva come un fulmine lasciando il pubblico interdetto e commosso, un vuoto non più colmato per destrezza vocale, originalità delle performance, profondità nella ricerca musicale.
Musicista sui generis, poliedrico e unico nel trattare la voce, Demetrio sceglie l’Italia per studiare e vivere. Greco di origine, nasce ad Alessandria d’Egitto nel ‘45, dove si forma prima al Conservatoire National d’Athènes in Egitto, poi attraversa adolescente gli scenari del Mediterraneo, a Nicosia (Cipro) e infine a Milano negli anni della giovinezza. Come lui stesso ricorderà, essere nato ad Alessandria lo farà sentire «una specie di “portiere” privilegiato, destinato a vivere l’esperienza del passaggio dei popoli e ad assistere al vero “traffico” della cultura mediterranea». I suoi viaggi sono parallelamente approdi a realtà sonore: dal canto bizantino, con cui ha dimestichezza nell’infanzia per le sue origini greco-ortodosse, alla musica araba tradizionale del mondo egiziano, dal pianoforte classico studiato in Conservatorio, al rock’n'roll, soul e free jazz, fino all’avanguardia musicale, incontrati nella capitale lombarda in pieno clima da beat generation. Presto si inserisce in band studentesche, dapprima come tastierista, successivamente come cantante, dopo un episodio di fortuna che lo porta a sostituire il vocalist del gruppo bloccato in un incidente. Da questo momento il canto e la voce saranno una appassionata costante della vita artistica di Stratos.
Dapprima con I Ribelli, raggiunge la notorietà per la sua interpretazione di Pugni chiusi, un classico della canzone italiana degli anni Sessanta, successivamente fonda nel ’72, insieme al batterista Giulio Capiozzo, gli Area, gruppo rock dal piglio esplosivo, con il quale incide la maggior parte dei suoi album per la graffiante Cramps Records, dal primo provocatorio Arbecht Macht Frei (1973) a Cometa rossa (1974), e album “duri” come Crac! (1975) e Maledetti (1976). In particolare, spiccano al loro interno brani significativi del primo rock progressivo italiano: Luglio, agosto, settembre (nero), Cometa rossa, Lobotomia, La mela di Odessa, L'Internazionale, per citarne alcuni. Nella fase di stabilità della band ritroviamo nomi di spessore come Patrizio Fariselli (tastiere), Ares Tavolazzi (basso e trombone) e Giampaolo Tofani (chitarra e sintetizzatore), ognuno dei quali apporta la propria impronta musicale, jazz, contemporanea, etnica, pop, il cui risultato sonoro genera una “fusione di tipo internazionalista”.
Dapprima con I Ribelli, raggiunge la notorietà per la sua interpretazione di Pugni chiusi, un classico della canzone italiana degli anni Sessanta, successivamente fonda nel ’72, insieme al batterista Giulio Capiozzo, gli Area, gruppo rock dal piglio esplosivo, con il quale incide la maggior parte dei suoi album per la graffiante Cramps Records, dal primo provocatorio Arbecht Macht Frei (1973) a Cometa rossa (1974), e album “duri” come Crac! (1975) e Maledetti (1976). In particolare, spiccano al loro interno brani significativi del primo rock progressivo italiano: Luglio, agosto, settembre (nero), Cometa rossa, Lobotomia, La mela di Odessa, L'Internazionale, per citarne alcuni. Nella fase di stabilità della band ritroviamo nomi di spessore come Patrizio Fariselli (tastiere), Ares Tavolazzi (basso e trombone) e Giampaolo Tofani (chitarra e sintetizzatore), ognuno dei quali apporta la propria impronta musicale, jazz, contemporanea, etnica, pop, il cui risultato sonoro genera una “fusione di tipo internazionalista”.
Ma Stratos è visceralmente attratto dalle potenzialità della voce che non smette di esercitare nella sperimentazione del proprio corpo come strumento. «L’ipertrofia vocale occidentale – afferma – ha reso il cantante moderno pressoché insensibile ai diversi aspetti della vocalità, isolandolo nel recinto di determinate strutture linguistiche. E’ ancora molto difficile scuoterlo dal suo processo di mummificazione e trascinarlo fuori da consuetudini espressive privilegiate e istituzionalizzate dalla cultura delle classi dominanti».
Il processo di ricerca e sperimentazione è totale: catturato dalla “fase di lallazione” della figlia Anastassia, nata nell’ottobre del ’70, osserva i suoni vocali farsi gradualmente parola; è vicino a John Cage nelle interpretazioni “gridate” delle sue partiture, con cui collabora a diverse performance, tra cui Sixty-two Mesostics Re Merce Cunningham; perfeziona la tecnica vocale degli armonici simultanei tipica dei popoli asiatici, fino a produrre con scioltezza diplofonie, trifoni e quadrifonie, toccando picchi inauditi di 7.000 Hz; collabora con il Centro Studi di Fonetica del CNR di Padova per ricerche sulla vocalità; insegna Semiologia della musica al Conservatorio Verdi di Milano; incide gli album per voce sola, Metrodora (1976) e Cantare la voce (1978). Qui lamenti, flautofonie, criptomelodie infantili, investigazioni vocali, canti delle sirene e sonorità “altre” dall’ordinario e dai canoni commerciali della musica, di primo acchito disorientano, spiazzano, poi inondano e trasportano l’ascoltatore capace di farsi rapire a mitiche vette di una comunione pre-linguistica. Una «voce piena – come osserva Paul Zumthor – che rifiuta qualsiasi ridondanza, esplosione dell’essere in direzione dell’origine perduta, del tempo in cui la voce era senza parola».
Quello che interessa l’artista è realizzare appieno il concetto di “voce-musica”, una voce-suono non vincolata dalla parola, capace di recuperare le origini e la libertà d’espressione primordiali, e in grado, attraverso un lavoro di consapevolezza del mezzo vocale, di introdurci ad una dimensione ontopoietica della realtà. E Stratos, «eroe in possesso di una dimensione ai limiti delle viscere dell’essere umano» (Eduardo Peñuela Cañizal), ci riesce perpetrando ad ogni ascolto il richiamo ad una dimensione sonora originaria e magica come al tempo di Esiodo in cui le storie, affidate all’oralità, erano capaci di curare l’anima.
Monica Sanfilippo
Nessun commento:
Posta un commento