G. Courbet, Funerale a Ornans, 1849 |
«Come il classicismo è la caricatura del classico il realismo è spesso il contrario del reale».
Parole sante, queste di Marcel Gromaire, perché in cosa esattamente consista il realismo nessuno lo sa. Tanto è ambigua questa etichetta che nel tempo, per specificare meglio ed evitare confusioni, il termine realismo è stato seviziato e costretto ad accoppiamenti degni delle più acrobatiche composizioni del Kamasutra. Il realismo è stato dunque: «capitalistico», «critico», «esistenziale», «espressivo», «fenomenico», «magico», «patetico», «popolare», «proletario», «prosaico», «simbolico», «sociale» e «socialista», fin nelle più note varianti di «neo», «iper» e «infra».
D'una cosa però, a parte certi pedanti della genealogia, sono d'accordo tutti, il Realismo nasce ufficialmente con Courbet.
Il pittore francese allestisce nel 1855, a seguito dei parziali ma continui rifiuti che l'arte ufficiale gli affliggeva, una propria mostra facendo costruire il Pavillon du Réalisme. Non fu un grande successo, ma segnerà la nascita (più o meno) ufficiale del Realismo. Le etichette a Courbet non son mai piaciute («in ogni tempo le etichette non hanno mai dato una giusta idea delle cose; se fosse stato diversamente, le opere sarebbero superflue») ma il termine gli si appiccicherà addosso inizialmente come un'infamia; mentre egli orgogliosamente rilanciava: «l'arte, il talento, secondo me, non dovrebbero essere per un artista che il mezzo di applicare le sue facoltà personali alle idee e alle cose dell'epoca in cui vive», oppure, prendendo a prestito le parole del suo grande amico, il filosofo Proudhon, «gli artisti lavorano invano se non si mettono in rapporto diretto e intimo con la coscienza del proprio secolo [...] trascurata questa condizione essenziale, l'arte, senza oggetto, senza scopo, senza ragione, senza direzione, senza criterio, finisce per degradarsi e non essere più arte; è una bambinata».
G. Courbet, Gli spaccapietre, 1849 |
Dunque l'"impegno", essere rappresentanti del proprio tempo; ma in che misura Courbet è autore "impegnato" quando dipinge Funerale a Ornans o Gli spaccapietre? In che misura è realista quando dipinge l'enorme tela L'Atelier - che rappresenta se stesso nel suo studio insieme ai suoi più cari amici e sostenitori (Baudelaire, Bruyas, Buchon, Champleury) e «il mondo della vita triviale, il popolo, la miseria, la povertà»?
Nel quadro I lottatori, del 1853, Klaus Herding ne ha dato una mirabile interpretazione (ripresa poi da Antonello Negri in Il Realismo. Da Courbet agli anni Venti, Laterza), molto utile per comprendere, oggi, la forza eversiva della sua pittura "politica".
G. Courbet, I lottatori, 1852 |
Il dipinto, com'è evidente, mostra due lottatori che danno spettacolo; particolarmente curati sono i dettagli dei corpi dei due protagonisti (le vene in evidenza del lottatore in pantaloncini rossi, i muscoli tesi), ma uno sguardo attento rivela notevoli incongruenze. Nella posizione con la quale il lottatore in pantaloncini rossi offende l'avversario vi è la compresenza di due "mosse", il colpo d'anca e la "cravatta", entrambe proibite in questi incontri. La compresenza di entrambe, poi, è stato notato essere, nella dinamica della lotta, molto poco realistico. Ma c'è di più. Tutta la prospettiva del quadro, a ben vedere, convince poco, i lottatori sembrano avulsi dal contesto, sembrano figure adattate ad un fondale che non le è proprio. Ed il fondale, in effetti, non sarebbe mai potuto essere quello. L'arco di trionfo che si intravvede fra gli alberi fa localizzare i lottatori all'ippodromo parigino degli Champs Elisées, ma non sembra affatto probabile che la borghesia parigina d'allora assistesse a questo genere di spettacoli, che avevano, invece, localizzazione nelle piazze delle banlieue e nelle fiere di provincia.
Come può essere realista un'opera tanto poco verosimile? Come può essere del proprio tempo un pittore che non sa nemmeno collocare esattamente un'incontro di lotta? Come può un grande pittore come Courbet essere tanto sbadato?
La chiave del realismo di Courbet, oltre che nell'uso innovativo della tecnica pittorica, sta soprattutto nella scelta e nella collocazione dei soggetti rappresentati. I lottatori di queste competizioni proletarie (che la politica perbenista e reazionaria di Napoleone III non vedeva di buon'occhio) erano quasi sempre contadini che dalla provincia s'erano spinti nella capitale della modernità, carichi di quelle illusioni che le metropoli come Parigi sapevano tanto astutamente suscitare. Ma il lavoro non era sempre facile trovarlo, e allora finivano col fare a botte per pochi spiccioli divertendo i poveri.
È il tema del quadro, dunque, tutto rivolto a quei lottatori dietro i quali si nascondono le amare storie dei vinti, la forza di questa tela. E allora si capisce perché Courbet colloca provocatoriamente - dunque anche innaturalmente - questa lotta agli Champs Elisées sotto lo sguardo d'una borghesia distratta, una borghesia, come ebbe a dire Proudhon, «carnosa e facoltosa, deformata dal grasso e dal lusso, in cui la mollezza e la massa soffocano l'ideale, destinata a morire di poltronaggine». Si capisce perché le due figure sembrino, ed in effetti sono, vuol dirci Courbet, avulse dal contesto. La «macchina muscolare a quattro zampe», come l'ha definita Klaus Herding, «non credibile da nessun punto di vista», è una citazione delle stampe popolari dell'epoca e mostra come Courbet abbia molto più a cuore il popolo che la borghesia. L'arte di Courbet vuole parlare al popolo e rappresentare il popolo, rifiuta il circuito intellettual-borghese nella quale era sempre stata relegata. Antonello Negri azzarda addirittura una lettura dell'opera ancor più "politica": i due lottatori potrebbero rappresentare, uno il governo napoleonico ed ecclesiastico (con i pantaloncini neri), l'altro il socialismo (ovviamente in pantaloncini rossi), con quest'ultimo a prevalere sul primo. Il lottatore vincente, l'unico visibile in volto, potrebbe essere l'intellettuale socialista Pierre Leroux. Ecco dunque perché Marcel Gromaire sostiene, e a ragione, che «il realismo è spesso il contrario del reale».
Benché Courbet rifiuti a gran voce il formalismo e inneggi alle teorie positiviste di Proudhon, Comte e Taine, la sua è un'arte che non rinuncia all'affermazione della personalità dell'artista («non ci possono essere scuole: non ci sono che pittori») e che non vuole appartenere a niente e a nessuno: «Ho cinquant'anni ed ho sempre vissuto libero; lasciatemi finire libero la mia vita; quando sarò morto voglio che questo si dica di me: Non ha fatto parte di alcuna scuola, di alcuna chiesa, di alcuna istituzione, di alcuna accademia e men che meno di alcun sistema: l'unica cosa a cui è appartenuto è stata la libertà».
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