Negli ultimi anni sono diventato sempre più critico in fatto di film, aumentando sensibilmente i miei pregiudizi su certe pellicole. D'accordo, magari sarò eccessivo e costretto poi a dovermi ricredere: ma credetemi, spesso il mio pregiudizio mi fa vedere lontano...
Qualche sera fa mi hanno proposto di andare a vedere il Dorian Gray del regista Oliver Parker, di cui francamente non sapevo neanche l'esistenza. Colto da dubbi ho avuto l'accortezza di vedere il trailer, restandone moderatamente incuriosito. Ma restava un dubbio, sarà mica un film americano di mero effetto? Una pellicola di intrattenimento senza capo né coda? Forse no, perché Il ritratto di Dorian Gray è una storia talmente bella da riuscire comunque piacevole. Così ho accettato.
Come non restare affascinati dalle atmosfere di una Londra ottocentesca? Dagli abiti dell'epoca e dai modi raffinati dell'alta borghesia? Come non lasciarsi andare ritrovando i personaggi letti anni fa e ormai sbiaditi nella mente? La morte di Sybil, la conversione di Dorian all'edonismo, eppoi il ritratto... Il film fin qui va bene, se non fosse per l'avanzare imperterrito di incongruenze, invenzioni e storpiature. Perché quella Londra oscura? Da dove nascono quelle atmosfere gotiche del tutto assenti nel romanzo? Chi ha mai scritto di un sortilegio demoniaco nel quadro di Dorian? Ma il film va oltre, si allontana, sino a inventare un secondo tempo improponibile; il rapporto di Dorian con la figlia di Lord Wottom, gli omicidi, il rapporto omosessuale... Risultato: il mio pregiudizio ancora una volta aveva ragione.
A dar forza alla mia impressione c'è una critica, letta tardivamente, che dipinge perfettamente la visione di questo film: «Per la terza volta alle prese con Oscar Wilde, Oliver Parker fa il primo passo falso con un adattamento quasi horror del famoso romanzo faustiano con il quadro che invecchia nella soffitta. Con aggiunte poco opportune e il mood paranormale il film tradisce la snobistica perversione dell'originale. Ben Barnes sembra capitato là per caso e bisogna fidarsi di Colin Firth, l'amico. Ma è tutto risaputo e patinato, il meno wildiano possibile e di sensualità liberty e di peccati veri non c'è l'ombra.» (Maurizio Porro, 'Corriere della Sera', 27 novembre 2009)
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