1 febbraio 2010

Un figlio prigioniero

Luigi Pirandello

«La vita è una grande pupazzata, ognuno riceve dalla società almeno un’etichetta che non gli si addice, una pagliacciata alla quale si può sfuggire solo attraverso la scrittura ». Così definisce la vita e la società Luigi Pirandello.
L’inquietudine e una solitudine a tratti disperata sono la costante dell’esistenza di Pirandello che tra il 1919 e il 1936 vive e scrive negli alberghi dei più importanti centri teatrali europei e americani; un volontario esilio, una protesta contro il mancato sostegno del fascismo e contro l'ambiente culturale e teatrale italiano («Pirandello ha un brutto carattere» sostiene il Duce). Ed è proprio in questi anni che inizia un fitto dialogo epistolare con il figlio Stefano. Una singolare simbiosi tra i due, sia parentale che letteraria, un duello epistolare in cui emerge da una parte  tutto il carattere dello scrittore, dell’uomo Luigi, dall’altra la ribellione di Stefano alla conquista di uno spazio tutto suo… «per non restare un figlio, sempre figlio», «uno che è figlio di Pirandello ma che poi certo non può essere Pirandello», come egli stesso afferma.


Per il padre Stefano ricopre ruoli diversi, segretario, procuratore, amministratore, collaboratore e intermediario con i giornalisti, critici, editori e registi; arrivando addirittura a scrivere sceneggiature per il cinema, racconti firmati poi dallo stesso Pirandello. Stefano scriverà per il padre il soggetto di un film sulle acciaierie di Terni, voluto da Mussolini per celebrare il lavoro dell’Italia fascista, Giuoca, Pietro!: «il soggetto lo scrivi tu. Io lo firmo e ti passerò il compenso che mi daranno».

Diverse le opere scritte da Stefano, due romanzi: Il muro di casa, Timor sacro, testi teatrali, I bambini, Il falco d’argento, In questo solo mondo, La scuola dei padri, L’uccelleria, in cui Stefano esprime tutta la sua originalità e raffinatezza, affrontando diversi temi: dalle problematiche sociali, alla famiglia, alla politica, alla letteratura, la guerra, con poca riconoscenza, almeno in vita, da parte della critica;  con stima  da parte del padre, convinto che sarebbe arrivato anche per Stefano il suo momento: «un lavoro come il tuo è fatto per un pubblico speciale preparato ed educato in un teatro adatto. Il pubblico dei soliti teatri non credo che possa sopportare tale spasmo d’umanità», questo scrivere Pirandello a Stefano per confortarlo.

Con una lettera di Pirandello, da Torino, il 15 aprile 1919, mentre si prepara la messa in scena di L’uomo la bestia e la virtù, ha inizio il lungo sodalizio epistolare tra padre e figlio.

Caro Stenù mio,
lavoro, ma di tanto in tanto crollo a piombo dal dramma che sto scrivendo al mio dramma vero, e allora mi prendo la testa tra le mani, chiudo gli occhi, e mi sento schiacciare dal peso enorme e irremovibile di questa mia ferocissima sorte!
Fortuna che sussiste ancora in me, viva, l’arte, e d’una vita sempre più profonda e potente, ma anche ahimè sempre più amara.
Lavora, quando e come ti è dato, Stenù mio, e ritorna presto, per attendere a comporre la tua vita. Questo mi preme, per te, per Lietta, per Fausto. Solo allora, quando vi saprò vivi per voi, sarò meno triste, o almeno più tranquillo.
Tanti e tanti baci forti forti dal papà tuo
Luigi

Non mancano da parte di entrambi divergenze di opinione e risentimento soprattutto da parte di Stefano che rimprovera al padre  di essere un troppo assente (Stefano scriverà successivamente Un padre ci vuole), e forse le lettere in un certo senso funzionano da terapia che a volte li avvicina e a volte li allontana, li allontana ogni volta che Stefano cerca  disperatamente una sua autonomia, un’autonomia quantomeno letteraria. Forse è proprio a causa di un pesante confronto letterario che il figlio di Pirandello sceglie di essere Stefano Landi, uno pseudonimo per sfuggire al peso di una ingombrante orma paterna  a cui  gli altri figli, Fausto e Lietta, non senza difficoltà e sofferenza hanno cercato in qualche modo di sottrarsi; Fausto fugge a Parigi  diventando un apprezzato pittore, Lietta avrebbe dovuto lasciare l’Italia e trasferirsi in Cile con il marito.

Masone (Genova), 24 luglio 1921

Caro Papà,
[…] Ho provato ieri a lavorare, ma ho presto smesso. Non sono ancora ben riposato […] la serenità è un mito doverla ritrovare allontanandosi dall’ambiente che ce l’ha tolta, quando ce l’ha tolta anche nell’animo […] E poi non posso riuscire a riposarmi, sotto l’assillo della necessità di trovare la mia via. Non sto forse un minuto senza pensarci […]
Io ti bacio forte forte e t’abbraccio
Il tuo figlio Stefano

E’ grazie ad Andrea, figlio di Stefano, che ha raccolto e pubblicato nel volume dal titolo Il figlio prigioniero, un inedito Pirandello, fragile con un oscuro mal di vivere come egli stesso affermava: «l’idea di chiudermi in una vita sedentaria mi fa orrore. E terrore la compagnia di me stesso». Con l’epistolario si ricompone la biografia dei due dialoganti, lo spazio privato e quello pubblico, il tracciato di una famiglia.


Questo rapporto di straordinaria intimità tra esaltazione e sconforto, tra incontro e scontro, tra il privato e il pubblico durerà decenni e lascerà un segno nella vita e nell'arte di entrambi.


Cristina Dipietro

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