20 marzo 2010

L’architettura italiana e la “sindrome di Manganelli”

Giorgio Manganelli
Giorgio Manganelli

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Se ogni discorso muove da un presupposto, un postulato indimostrabile e indimostrando, in quello chiuso come embrione in tuorlo e tuorlo in ovo, sia, di quel che ora si inaugura, prenatale assioma il seguente: CHE L'UOMO HA NATURA DISCENDITIVA. Intendo e chioso: l'omo è agito da forza non umana, da voglia, o amore, o occulta intenzione, che si inlàtebra in muscolo e nerbo, che egli non sceglie, né intende; che egli disama e disvuole, che gli instà, lo adopera, invade e governa; la quale abbia nome potestà o volontà discenditiva.

Tra il 1964 e il 1990 un pazzo s'è aggirato per gli anditi oscuri della letteratura italiana, l'autore di questo e d'altri manicomi verbali: Giorgio Manganelli.


Quel che avete letto era l'incipit del suo esordio narrativo, Hilarotragoedia, un libro - sarebbe un azzardo definirlo in altro modo - ove l'autore si pone l'obbiettivo di dimostrare, come fosse un trattato cinquecentesco, la natura «discenditiva» dell'uomo; tra postille, chiose e note che allargano sempre più gli orizzonti di un testo che smarrisce (volutamente) il perimetro concettuale ov'era, al principio, rigidamente inquadrato.
L'enfasi ellittica della sua prosa, la sua logorroica verbosità, incidono quasi tutti i suoi scritti di matrice letteraria - di Manganelli non si conoscono romanzi, ma solo libri, garbugli rissosi di aguzze parole - anche i saggi, nei quali esprime il suo credo letterario: «la letteratura, ben lungi dall'esprimere la "totalità dell'uomo", non è espressione, ma provocazione [...]. Letteratura è un gesto non solo arbitrario, ma anche vizioso: è sempre un gesto di disubbidienza, peggio, un lazzo, una beffa; e insieme un gesto sacro, dunque antistorico, provocatorio». Per Manganelli, dunque, «lo scrittore sceglie in primo luogo di essere inutile».
Ovviamente, a questo punto, vi starete chiedendo cosa c'entri tutto ciò con l'architettura. Niente. È questo il punto. Ma l'Italia, si sa, è il paese dove l'eccezione è la regola e la regola non esiste.
Mi spiego. Che tutto ciò c'entri poco con l'architettura è evidente, ma non per una buona fetta degli architetti italiani. Le riviste d'architettura nostrane, quando pubblicano architetture "italiane" - spinte più da impeto patriottico (come «Casabella») che da un'oggettiva qualità che ne giustifichi la loro pubblicazione - sono afflitte da un'emorragia di parole che sovente scavalca il progetto; che ne vuole scandagliare tutte le intellettualistiche convergenze, con la storia, il contesto, la società. Testi che a leggerli isolatamente verrebbe voglia di complimentarsi con l'autore; testi colti, ben scritti, ma inevitabilmente inutili. Testi che mostrano come in Italia, più che altrove, ci sia una preoccupante scissione tra le parole e i fatti, scissione che, ad analizzarla ci porterebbe molto lontani da qui.
La relazione di progetto che Afra e Tobia Scarpa, solo per fare un esempio, hanno pubblicato sul numero 683 di «Casabella» (nome che, ne sono certo, ai "non addetti ai lavori" suona come una rivistucola da casalinga) è eloquente:
Una forma semplice, archetipa - la tenda - e al contempo simbolica - la montagna - che non si impone al paesaggio, ma ne coglie le sfumature: il sole (la luce), il fuoco, il mare. La forma geometrica della copertura rappresenta il simbolo antico della vita e della morte come dello spirituale e del materiale. Elementi contrapposti che si compenetrano e si miscelano nell'armonia del sentire, del capire e dell'agire: lo sport. [...] Il profilo si rapporta alle linee della montagna e si apre con forza verso il mare, integrandosi nel paesaggio [...].
La vita? La morte? Ma perché? Tutta questa "letteratura" per giustificare i due cerchi compenetrantisi che costituiscono la copertura del palazzetto dello sport di Salerno che hanno progettato.
Non sorprende allora se Antonio Monestiroli, più attivo come teorico ma che ha realizzato tra le altre cose il bel cimitero di Voghera, dica: «mi è capitato spesso di imparare più dalle relazioni dei progetti di alcuni che considero i miei maestri, che dai progetti stessi», o che Giorgio Grassi teorizzi: «il progetto, in realtà è un tipo particolare di analisi». Ed eccolo il paradigma di certa - troppa - architettura italiana: l'analisi. «Analisi uguale paralisi» amava dire un portoghese che conosco.
È questo desiderio di "intellettualizzare", questo usare più la penna che la matita (più la tastiera che il mouse, sarebbe meglio dire) il male che ha afflitto, a mio avviso, molta della poca architettura che si è prodotta in questi ultimi anni in Italia. È questa la 'sindrome di Manganelli', la spericolata traiettoria che funambolici contorcimenti del pensiero seguono per giustificare una scelta assolutamente arbitraria.
Certo, la drammatica situazione che vivono gli architetti in Italia, con pochissime committenze e tempi lunghissimi per la realizzazione dei lavori, porta l'architetto a "sporcarsi" sempre meno le mani, a disaffezionarsi al cantiere. Sfogliando le monografie che l'Electa ha dedicato agli architetti italiani, a parte il solito Piano, si scopre che sono le uniche ove il numero di pagine dedicate ai progetti (quasi sempre non realizzati) è inferiore a quello dedicato ai testi: lunghissimi, pedanti, affettati.
Va molto peggio, poi, se si parla della formazione universitaria. I professori delle facoltà di architettura sono sovente la dimostrazione che «chi sa, fa, chi non sa, insegna». Le loro idiosincrasie verso tutto ciò che la pratica architettonica comporta, trasmette agli allievi una cultura del progetto filtrata, decurtata dalle "noiose" questioni tecnico-funzionali. Meglio la letteratura, il cinema, la filosofia, le piroette concettuali che girano su se stesse ignorando il resto; forze centrifughe che radunano citazioni inutili ed analisi delle quali non si fa un uso che non sia di bandiera, stendardo, medaglia da lucidare col fiato e mostrare a visi esterrefatti da tanta sapienza. E allora citazioni a valanga e analisi a gogò, che poi l'ago delle parole e il filo del ragionamento metteranno in riga a giustificare molte delle mediocrità che si vedono. Sublimi menzogne alla Manganelli rendono lecito ciò che altrimenti sarebbe illecito: le parole come stampelle da paraplegico per un'architettura malata.
Carlos Martí Arís con un'efficacissima metafora ha sintetizzato il problema: «Come la centina, la teoria, a mio giudizio, non deve essere altro che una costruzione ausiliare che, dopo aver permesso di formare l'arco, si smonta e scompare discretamente affinché questo possa essere visto in tutto il suo splendore».
Sembra proprio che, in certi casi, la cultura ottunda lo slancio vitalistico. Ne sa molto Orson Welles che dopo aver cambiato la storia del cinema a venticinque anni con Quarto potere ha detto: «devo tutto alla mia ignoranza». Ma forse anche io, scrivendo queste note e praticando l'autoerotismo delle parole, da giovane architetto mi lascio già cogliere dalla ‘Sindrome di Manganelli'.
Leggere fa male.


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