6 dicembre 2010

Monicelli: l'ultima bischerata

Il cinema non produce arte, crea al massimo cultura.

Mi piacerebbe vivere in un mondo come quello greco-romano. Solare,
pagano, mediterraneo, con molti dei. Rallegrato da riti e feste popolari:
saturnali, fescennini, falloforie. Pane e circensi.

Mario Monicelli
Mario Monicelli (foto di Claudio Porcarelli)

Sono sempre stato convinto che Mario Monicelli è stato (di gran lunga) più grande come uomo che come artista, più grande come intellettuale che come regista. È per questo che la mia stima nei suoi confronti è diventata, anno dopo anno, un’idolatria da teenager. 
Il filosofo marxista György Lukács sosteneva, contrariamente alle teorie idealiste, che l’arte non è roba da geni che, ispirati da un qualche afflato divino, realizzano degli immortali capolavori. Aggiungeva pure, da buon materialista, che questa (quella idealista) è una visione profondamente religiosa, ove il creatore è superiore all’opera creata. Il materialismo lukácsiano, all’opposto, propone un’idea di artista che impara, cresce, si sviluppa, tramite le opere da lui create, insomma, un’artista-artigiano. È quanto, credo, possa dirsi di Monicelli (e di una grossa fetta del cinema italiano anni sessanta e settanta). Ateo e marxista – pure  lui – non sopportava niente che, anche lontanamente, potesse approssimarsi alla retorica: «Maestro io? Ma quale maestro. Sono soltanto un artigiano, come l’orafo o il vetraio. E piantiamola con questa storia del cinema d’autore, come se fosse chissà quale sublime forma d’arte. Si è fatta troppa retorica intorno ai vari Fellini. Li abbiamo imbalsamati, ne abbiamo fatto dei monumenti».
I suoi film sono «strumenti», nell’accezione lukácsiana del termine, che consentono a chi li guarda di comprendere, non già l’Italia come appare, ma il “meccanismo”, l’intima natura, becera e ridevole, di una certa italianità borgatara. I suoi film sono stati la sua palestra per crescere, nella finezza dello sguardo e nel disincanto del pensiero, e diventare quell’uomo straordinario che è stato. Ha lavorato per sé, Monicelli, dando l’impressione di farlo per gli altri; come solo per i grandi la sua arte era per tutti perché pensata egoisticamente.
Tramite il cinema ha scagliato il suo anticonformismo contro la famiglia, la politica, il perbenismo borghese. Avrebbe voluto scagliarlo anche contro la religione, ma negli anni sessanta e settanta era impossibile:


Io considero l’avvento del monoteismo, e del cristianesimo in particolare, come una sciagura per l’umanità. L’ebraismo era sì una religione monoteista, ma era rappresentato da una piccola setta che non rompeva i coglioni a nessuno. È stato San Paolo, il cristianesimo, a seccare il mondo intero. L’ho sempre pensata in questo modo, anche se nelle nostre commedie del dopoguerra la satira di carattere anticlericale e antireligiosa non ci era consentita. Per questo nei nostri film sono molto scarsi i riferimenti alla religione. Oggi le cose sono cambiate e non sarebbe più un problema ironizzare in maniera anche molto pesante sulla Chiesa, i papi, i Padre Pio e compagnia bella. Ma, insomma… ormai non ne vale nemmeno più la pena. Sarebbe come sparare sulla Croce Rossa!


Eppure, eccettuata la religione, il suo cinema ha detto tutto il male possibile dell’Italia; come chi, amandola, proprio non riesce a sopportarne gli oltraggi. D'altronde (e forse stranamente) «Gli italiani si sono fatti dire dal cinema cose che non hanno concesso di farsi dire dal teatro e dal romanzo». Proprio il romanzo, una sua grande passione: «io volevo essere un romanziere. Mi piaceva Flaubert, avrei voluto scrivere come Dostoevskij. Mi sono accorto però abbastanza rapidamente – perché non sono del tutto stupido – che era meglio abbandonare questa ambizione». E allora il cinema, gli esordi giovanili negli anni trenta, poi la caduta del fascismo, Totò e la commedia: 


La commedia è la nostra nascita. La lingua italiana nasce dalla Commedia di Dante, che poi si è chiamata Divina commedia. Ed è una pagliacciata di Boccaccio: perché «Divina», a che serve? L’opera di Dante si chiamava La Commedia. E nella Commedia avviene tutto, tutto. Noi veniamo dalla commedia e la nostra vera natura è «la Commedia». La commedia continua nella Mandragola. E anche qui cose turche. Nella commedia italiana ci sono sempre turpitudini. Poi c’è la commedia dell’arte, in cui i servitori cercano di difendersi dal padrone che li vuole sopraffare e che, a loro volta, rubacchiano. La commedia all’italiana non l’abbiamo mica inventata noi del dopoguerra. Magari! Viene da lontano. La commedia all’italiana viene dalla Commedia di nostro padre Dante.


Il suo cinema è sempre stato commedia, anche quando la battuta si faceva beffarda, l’ironia amara; anche quando si faceva seria per poi sprofondare nella farsa. Amava Antonioni – più di Fellini – ma, per sua stessa ammissione, non sarebbe mai riuscito a fare film come quelli del regista ferrarese: «Le grandi domande esistenziali non mi interessano. Chi siamo e dove andiamo sono cose su cui non mi sono mai soffermato. Quelle bischerate là servono solo ad alimentare l’angoscia».


Più di sessanta film, una decina di capolavori e qualche pellicola mediocre che non aveva nessuna difficoltà a giudicare tale. Prendeva molto poco sul serio i riconoscimenti pubblici e gli elogi intellettuali. Era un comunista che liquidava il ’68 come «una stupidata», era l’unico intellettuale al quale non ho mai sentito proferire una citazione dotta. Sempre “contro”, sempre anticonformista; una “cattiveria” che forse gli è stata concessa solo come contrappasso delle risate che ha regalato. 

Nel 1976, per documentarsi adeguatamente per l’adattamento cinematografico di Un borghese piccolo piccolo – dal romanzo di Cerami –, Monicelli si iscrisse alla massoneria. Fece il rito di iniziazione e poi non si fece più vedere, d’altronde non gli importava nulla. Chissà come dovettero rimanerci male i confratelli quando si accorsero di essere stati presi in giro, e che Monicelli aveva rappresentato sul grande schermo il rito che lo aveva iniziato in versione decisamente farsesca.

Quando gli chiedevano di Manuel de Oliveira, il grande regista portoghese centenario (il più anziano al mondo ancora in attività) continuava a ripetere che non vedeva l’ora che morisse, perché con la sua iperattività, e la sua età, lo metteva in ombra! E invece se ne è andato prima lui, per di più suicidandosi, come il padre, che trovò riverso nel bagno di casa alle sei del mattino, dopo esser stato svegliato dal colpo di pistola. Il suo, però, non è stato il gesto d’un disperato che non aveva la forza di affrontare la vita, semmai quella d’un intellettuale che, avendola abbondantemente vissuta decide, lucidamente, di affrontare la morte. Come ha scritto Nietzsche: «Tutto quanto è maturo vuol morire».


P.S. raccolgo quattro battute tratte dal sito Spinoza.it sulla morte del maestro. Mi sembra un ottimo modo di ricordarlo, consapevole che la cinica spietatezza di queste battute Monicelli avrebbe molto apprezzato.

È morto Mario Monicelli. Bestiali, questi tagli alla cultura. (darlene alibigie)

È morto Mario Monicelli. Sarà sepolto sotto un cumulo di retorica. (aquilante)


Monicelli, malato terminale, ha deciso di farla finita. Ancora una volta ha saputo rappresentare l’Italia come nessuno. (blepiro)


Napolitano: «Monicelli ci ha fatto sorridere, commuovere e riflettere». Purtroppo senza risultati. (waxen)


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