Non date retta a chi decanta le gioie di una estate in città. Milano, senza i suoi abitanti, semplicemente non ha senso. Senza il viavai, senza le incazzature, i furgoncini degli artigiani in seconda fila e le macchine delle sciure che portano i figli all’asilo in terza, senza le polveri sottili, la metropolitana nelle ore di punta, senza gli impiegati e i mendicanti, senza tutto ciò, è come se perdesse la terza dimensione.
Gianni Biondillo, Per cosa si uccide
Un signore compito, educato. Un uomo perbene. Uno che viene dalla provincia, da buona famiglia e buone letture; colto ma non retorico, diretto, e in un certo senso “antiaccademico”, Buzzati era, soprattutto nel decennio dei sessanta, un “uomo d’altri tempi”.
Negli anni del boom economico e del mutamento della coscienza interiore degli italiani – il tramonto dell’ingenuità contadina –, che allora mostrava solo i primi indizi di una “catena di montaggio sociale”, Buzzati, che amava i silenzi delle montagne, i riti solitari della scrittura, della pittura e della lettura, era un eremita metropolitano. In molti dei suoi testi compaiono, a volte solo come sottofondo altre come metafora, le implicazioni della modernità, l’aggressività d’una nazione tronfia, con punte di cafonaggine che avranno modo di estendersi lungo tutto lo stivale man mano che il benessere le contagerà.
Quando nel 1963, presso Mondadori, apparirà Un amore il mondo della letteratura italiana lo accoglierà con sorpresa e qualche critica. Dal suo capolavoro Il deserto dei Tartari (sua terza prova), del 1940, Buzzati aveva goduto di una benevolenza critica, soprattutto internazionale, quasi unanime, culminata nel 1958 con il Premio Strega assegnato ai Sessanta racconti. Alla sua scrittura, così “secca”, precisa, in qualche modo “introversa”, con questo nuovo romanzo dal forte sperimentalismo linguistico (una reinterpretazione del flusso di coscienza joyciano), dalla tematica dell’amore infelice, dall’autobiografismo delle vicende del protagonista e da un certo latente erotismo che sfocia sovente in un realismo esplicito, i lettori rimangono spiazzati. Però, se si prova a collocare quest’opera a confronto con le altre, ci si accorge facilmente di quanto ritornino le tematiche care allo scrittore bellunese: la difficoltà di adeguarsi ad un mondo in rapida trasformazione, con venature di pessimismo esistenzialista – la critica internazionale ha sottolineato il legame della sua opera con Sartre e soprattutto Camus, di cui era anche amico –, la solitudine degli individui e situazioni che si presentano in chiave misteriosa.
La vicenda narrata dal romanzo è quella di Antonio Dorigo (certamente non casuale l’assonanza col nome del protagonista dell’altro suo romanzo parzialmente autobiografico, il Giovanni Drogo del Deserto dei Tartari) architetto milanese cinquantenne, scapolo e frequentatore di una casa chiusa che gli consentirà di conoscere, e godere, di Laide. Adelaide è una ragazzina che farà in breve perdere la testa ad Antonio: con la sua bellezza, la sua gioventù, i suoi capricci, i suoi misteri. Laide è «sfrontata, maliziosa, civetta, popolaresca, sicura di sé»; è una che viene da un mondo completamente diverso rispetto a quello dello stimato professionista: «Per farsi prendere in considerazione da lei, una bella Maserati ultimo modello contava molto di più che aver costruito il Partenone».
Quest’amore, fatto di attese e sospetti, per Dorigo sarà un’angoscia, un dolore, una malattia:
Ora si accorge che, per quanto egli cerchi di ribellarsi, il pensiero di lei lo perseguita in ogni istante millimetrico della giornata, ogni cosa persona situazione lettura ricordo lo riconduce fulmineamente a lei attraverso tortuosi e maligni riferimenti. Una specie di arsura interna in corrispondenza della bocca dello stomaco, su su verso lo sterno, una tensione immobile e dolorosa di tutto l’essere, come quando da un momento all’altro può accadere una cosa spaventosa e si resta inarcati allo spasimo, l’angoscia, l’ansia, l’umiliazione, il disperato bisogno, la debolezza, il desiderio, la malattia mescolati tutti insieme a formare un blocco, un patimento totale e compatto.
Antonio e Laide prendono a frequentarsi anche privatamente, ma senza sciogliere il loro vincolo economico, e nonostante sia lui a pagare lei, la smaliziata Lolita meneghina conduce il gioco di un rapporto fatto, per Antonio, di umiliazioni e attese: un piccolo inferno.
Ma Buzzati non delude quanti si aspettano da lui qualcosa di più di una semplice storia d’amore (sebbene risolta sotto il profilo psicologico dei personaggi) e ricordano lo scrittore che, affondando nel fantastico, trova metafore che parlano dell’alienazione contemporanea. L’amore per Laide, infatti, è un amore carnale e corrotto e Laide (assonanza voluta) è la Milano che Buzzati quasi non riconosce più, infervorata com’è ad apparire moderna; ma di una modernità solo apparente.
Lui la amava per se stessa, per quello che rappresentava di femmina, di capriccio, di giovinezza, di genuinità popolana, di malizia, di inverecondia, di sfrontatezza, di libertà, di mistero. Era il simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio, vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé che fermentava di insaziabile vita intorno alla noia e alla rispettabilità dei borghesi. Era l’ignoto, l’avventura, il fiore dell’antica città spuntato nel cortile di una vecchia casa malfamata fra i ricordi, le leggende, le miserie, i peccati, le ombre e i segreti di Milano.
In altri brani è ancora più esplicito: «In lei, Laide, viveva meravigliosamente la città, dura, decisa, presuntuosa, sfacciata, orgogliosa, insolente. Nella degradazione degli animi e delle cose, fra suoni e luci equivoci, all’ombra tetra dei condominii, fra le muraglie di cemento e di gesso, nella frenetica desolazione, una specie di fiore». È forse un caso che il protagonista sia proprio un architetto? Nella Milano delle grandi opere edilizie, del Grattacielo Pirelli e della Torre Velasca, completate da pochi anni? Alla reificazione e al nichilismo oppone la disperata carnalità del sesso, schiacciato dal cumulo di ipocrisia borghese che Buzzati evidenzia. Anche il testo si pone al servizio degli intenti dello scrittore e in lunghi brani diventa un flusso di coscienza senza virgole né punti, oppure descrive minuziosamente la città in fermento ricordando un po’ Henry Miller, o passa, repentino, dalla terza alla prima persona, a sottolinearne le componenti autobiografiche.
Nel 1965 Gianni Vernuccio ne ha tratto un film elegante ma debole, con una sensuale Agnes Spaak (la sorella di Catherine); ma ci sarebbe voluta la sensibilità di Antonioni per una storia come questa, fra silenzi interiori e il frastuono della città:
A poco a poco lei ora si stacca da lui, esce dalla sua casa e dalla sua vita, col suo impavido passo ecco che si incammina verso l’enigmatico cuore della sua città che nessuno di solito vede, fra squallidi e fortissimi scenari, attraverso gli scrostati fumigosi cortili stillanti di pioggia, fra i riverberi del lusso, negli antri degli antichi palazzi, giù per gli interminabili corridoi di linoleum, negli angoli delle catacombe del vizio, fra cigolii di pneumatici, frastorno di tornii, urla, pianti e risate, andirivieni di uomini instancabili e stanchi, affrettati baci, ombre di avventurieri controluce, camici verdi di chirurghi, agguati telefonici, un folle rimescolio di desideri, sforzi e illusioni che brucia confuso nella folla la quale arriva riparte si mescola incalza si rompe e sparisce mentre un’altra identica folla si avventa e sprofonda nel gorgo.
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