Attore, regista, drammaturgo, nicchia del nostro teatro Marco Paolini, autore e interprete di un repertorio che appartiene al cosiddetto teatro civile. Il suo teatro è capace di insegnare, far ridere fino alle lacrime e commuovere fino al silenzio.
L’avventura nel mondo teatrale ha inizio nel 1976 fondando Il Teatro degli Stracci, teatro di strada e clownerie. E’ considerato uno dei massimi esponenti della cosiddetta "prima generazione" di quel "quasi-genere" solitamente definito come teatro di narrazione, un teatro che nasce sulla scia del Mistero Buffo di Dario Fo e si fonda sul racconto di un performer che - senza trucco, costumi o scenografia - assume la funzione di narratore, con la propria identità non sostituita, cioè senza interpretare un personaggio. Negli anni novanta inizia a collaborare con la Cooperativa Moby Dick - Teatri della Riviera con cui ha realizzato spettacoli come: Il racconto del Vajont, Appunti foresti, Il milione - Quaderno veneziano di Marco Paolini e i Bestiari (raccolta di spettacoli dedicati al recupero della cultura locale, in particolare veneta).
Proprio grazie a Il racconto del Vajont Paolini arriva al grande pubblico, lo spettacolo vince nel 1995 il Premio Speciale Ubu. Per l’anniversario del disastro, il 1997, Rai Due trasmette in diretta dalla diga del Vajont lo spettacolo. Questo spettacolo influisce coi suoi tre milioni di telespettatori anche sugli sviluppi del “teatro narrazione” accelerandone la trasformazione in un quasi genere di riferimento. Questa non sarà la sua unica esperienza televisiva ci tornerà nel 2006 per un altro interessante spettacolo, Album, dodici puntate trasmesse da Rai Tre. Gli Album che Marco Paolini dedica alla sua infanzia sono costruiti sul nesso tra memoria individuale e memoria collettiva, tra esperienza personale e storia: è l’equilibrio che cerca di ricostruire il teatro civile, riattivando la consapevolezza individuale per poter condividere un sentimento collettivo e civile.
Per Paolini il teatro non può essere una terapia o un medicamento per l’anima, bensì teatro civile, d’impegno, di riscossa e presa di posizione. Per non mandare nell’oblio memorie dei nostri drammi recenti che hanno fatto la storia del nostro paese.
È questo il senso che Paolini cerca di dare ai suoi spettacoli, che si differenziano da quel teatro politico che andava per la maggiore negli anni Settanta e che agli inizi degli anni Novanta stava vivendo una crisi irreversibile. Questo genere di produzione appaiono superate per la sua impostazione ideologica e sospettato di essere veicolo di propaganda e indottrinamento, attraverso la comunicazione di una interpretazione del mondo ideologicamente predeterminata, rigida. A essere diversa è la posizione di chi agisce sulla scena: il regista e gli attori di uno spettacolo “politico” si considerano un’avanguardia, perché possiedono una verità che devono presentare al pubblico nella maniera più convincente. Chi fa teatro civile vuole invece porsi allo stesso livello degli spettatori: la sua ricerca della verità è, come lo spettacolo, un work in progress, un percorso sempre in divenire.
È questo il senso che Paolini cerca di dare ai suoi spettacoli, che si differenziano da quel teatro politico che andava per la maggiore negli anni Settanta e che agli inizi degli anni Novanta stava vivendo una crisi irreversibile. Questo genere di produzione appaiono superate per la sua impostazione ideologica e sospettato di essere veicolo di propaganda e indottrinamento, attraverso la comunicazione di una interpretazione del mondo ideologicamente predeterminata, rigida. A essere diversa è la posizione di chi agisce sulla scena: il regista e gli attori di uno spettacolo “politico” si considerano un’avanguardia, perché possiedono una verità che devono presentare al pubblico nella maniera più convincente. Chi fa teatro civile vuole invece porsi allo stesso livello degli spettatori: la sua ricerca della verità è, come lo spettacolo, un work in progress, un percorso sempre in divenire.
Paolini non si definisce uno specialista, un tecnico o un esperto, ma uno di noi, un cittadino comune che si è appassionato a un problema o a un episodio storico, che si è informato e che vuole condividere con il pubblico il proprio sapere, accumulato con pazienza e trasformato in storia, in racconto-spettacolo. Si potrebbe dire che i suoi lavori abbracciano due generi, il teatro di narrazione, una definizione che evidenzia una caratteristica formale, e teatro civile, una definizione che riguarda invece i contenuti e un certo rapporto con il pubblico, due generi che si intrecciano. Nel teatro di narrazione, ciò che viene messo in evidenza è la peculiare libertà della narrazione orale, che fluttua, senza che lo spettatore se ne accorga, fra la riproposizione del narrato e la sua rielaborazione estemporanea.
Per cogliere le implicazioni e le modalità d’uso degli accostamenti fra documenti laboratori e testi narrativi, occorre considerare che, specie nel caso della narrazione, i laboratori e le altre forme di trasmissione diretta dell’esperienza non definiscono una fase di apprendimento tecnico, ma, tutto all’opposto, nascono e si strutturano in quanto condivisione dei principi di composizione individuati dal narratore/pedagogo nel corso delle sue molteplici esperienze.
Tutti i narratori sono animati, al di là delle differenze generazionali, di formazione e carattere, da uno stesso bisogno etico che li porta a condividere le proprie percezioni dei fatti storici e del sociale condensandole in azioni psichiche irreversibili. Ogni narratore, infatti, sente di essere come dice lo stesso Paolini, una persona da leggere con splendida immagine, come nel medioevo si leggevano i muri delle cattedrali; il narratore applica codici comunicativi d’immediata trasparenza; contamina sperimentalmente diversi linguaggi e modelli senza però allentare il rapporto con lo spettatore, ed esercita istintivamente due diversi tipi di testimonianza: la testimonianza di quanto egli stesso ha esperito lavorando alla narrazione, e quella dei referenti esterni, fatti, libri, persone.
Per cogliere le implicazioni e le modalità d’uso degli accostamenti fra documenti laboratori e testi narrativi, occorre considerare che, specie nel caso della narrazione, i laboratori e le altre forme di trasmissione diretta dell’esperienza non definiscono una fase di apprendimento tecnico, ma, tutto all’opposto, nascono e si strutturano in quanto condivisione dei principi di composizione individuati dal narratore/pedagogo nel corso delle sue molteplici esperienze.
Tutti i narratori sono animati, al di là delle differenze generazionali, di formazione e carattere, da uno stesso bisogno etico che li porta a condividere le proprie percezioni dei fatti storici e del sociale condensandole in azioni psichiche irreversibili. Ogni narratore, infatti, sente di essere come dice lo stesso Paolini, una persona da leggere con splendida immagine, come nel medioevo si leggevano i muri delle cattedrali; il narratore applica codici comunicativi d’immediata trasparenza; contamina sperimentalmente diversi linguaggi e modelli senza però allentare il rapporto con lo spettatore, ed esercita istintivamente due diversi tipi di testimonianza: la testimonianza di quanto egli stesso ha esperito lavorando alla narrazione, e quella dei referenti esterni, fatti, libri, persone.
Questo è anche tutta l’essenza del lavoro di Marco Paolini che si fa carico di una funzione informativa e formativa. Non interpreta un personaggio, sale in scena in quanto individuo, come cittadino, la sua legittimazione, la sua credibilità si fonda proprio su questo “metterci la faccia” e sulla relazione che riesce a instaurare sul pubblico, che misura la sua “verità” operando un cortocircuito tra la sincerità di chi parla e la verità di ciò che dice.
Sotto vari aspetti, il narratore Paolini pare più vicino alle maschere di certi attori comici che agli interpreti del cosiddetto “teatro di prosa” utilizzando termini e cadenze dialettali. Questa identificazione etnica è parte integrante della persona scenica e contribuisce a renderla familiare, autentica e credibile così come diventa fondamentale il rapporto con la storia e la memoria. Al centro di molto teatro civile c’è una pagina di storia recente che è necessario portare alla consapevolezza collettiva: perché è stata dimenticata, perché la verità è stata in qualche modo occultata o distorta.
Spettacolo dopo spettacolo, Paolini ha così iniziato a scriversi una Storia dell’Italia contemporanea incarnando perfettamente il narratore-attore e rappresentando un fenomeno particolare all’interno del nostro panorama teatrale, in quanto egli è autore-attore delle proprie opere e spesso ne cura anche la regia.
Sotto vari aspetti, il narratore Paolini pare più vicino alle maschere di certi attori comici che agli interpreti del cosiddetto “teatro di prosa” utilizzando termini e cadenze dialettali. Questa identificazione etnica è parte integrante della persona scenica e contribuisce a renderla familiare, autentica e credibile così come diventa fondamentale il rapporto con la storia e la memoria. Al centro di molto teatro civile c’è una pagina di storia recente che è necessario portare alla consapevolezza collettiva: perché è stata dimenticata, perché la verità è stata in qualche modo occultata o distorta.
Spettacolo dopo spettacolo, Paolini ha così iniziato a scriversi una Storia dell’Italia contemporanea incarnando perfettamente il narratore-attore e rappresentando un fenomeno particolare all’interno del nostro panorama teatrale, in quanto egli è autore-attore delle proprie opere e spesso ne cura anche la regia.
Da Il Racconto del Vajont in poi, l’attore, pur mantenendo inalterata la tecnica narrativa, ha saputo reinventarsi continuamente, presentando opere pensate appositamente per il piccolo schermo, componendo un cd o, ancora, lavorando su di un’opera letteraria quale Il Sergente nella neve di Rigoni Stern.
Del teatro di Paolini si può mettere in luce il suo continuo impegno civile, il concetto di memoria e il forte legame con la sua terra d’origine. Il teatro di Paolini è fatto essenzialmente di ricerca e di studio; il suo lavoro inizia proprio col cercare parole adatte, significative, dense di segreti, al pari di autorevoli poeti, che ricercano le radici perdute di un territorio, nel quale si sono sedimentati gli umori di uomini, di bestie e di esseri viventi. È un teatro che ama raccontare storie e, dunque, affida molta della sua forza alla parola; essa esercita il suo potere nel momento in cui si manifesta, e grazie alla voce del narratore evoca persone, fa ridere e piangere, intenerisce e produce indignazione. Il suo teatro mostra l’eterno istinto dell’uomo a raccontare; Paolini vuole fare propri i registri narrativi, il Tragico, il Comico e l’Epico attraverso cui narrare i volti anonimi, o inventati delle generazioni passate, storie di amore e sopruso affinché tutto sia salvato dall’oblio senza giustizia e da chi vuole un paese senza memoria. Egli rivaluta il rapporto diretto fra scena e pubblico, fra attore e spettatore, anche se sente il bisogno di uscire dai teatri ufficiali, per approdarci solo alla fine, poiché li ritiene dei luoghi non in grado di far crescere un artista.
Paolini ha imparato a moltiplicare il punto di vista e ad assumere sempre più quello degli ultimi, degli sconfitti, fino alle bestie e alle cose inanimate del paesaggio inerme; il suo è un teatro che si scompone e ricompone continuamente, un corpo testuale, fisico e figurale che proprio nella radicale differenza delle storie raccontate trova paradossalmente il modo di farsi riconoscere, di rimanere sé stesso pur nella metamorfosi ininterrotta.
Il suo scopo è che alla fine di ogni spettacolo ogni singolo spettatore abbia la sensazione di aver ricevuto un invito a scendere per strada e incuriosirsi della cronaca di tutti i giorni.
Paolini non si serve della scrittura per comporre il testo della narrazione, tuttavia scrive moltissimo: appunti diaristici, riflessioni, brevi racconti, che prendono talvolta la via della stampa oppure confluiscono nell’oralità degli spettacoli.
Con gli spettacoli di Paolini, si riscopre il piacere e la necessità di raccontare delle storie e condividerle, utilizzando il mezzo televisivo come uno strumento di diffusione “popolare”. Come cantastorie del duemila questo attore monologante acquista una nuova autorevolezza proprio mettendo in atto una strategia radicata negli esseri umani: la necessità di scambiare esperienze, narrare e commentare i fatti e tramandare memoria.
Del teatro di Paolini si può mettere in luce il suo continuo impegno civile, il concetto di memoria e il forte legame con la sua terra d’origine. Il teatro di Paolini è fatto essenzialmente di ricerca e di studio; il suo lavoro inizia proprio col cercare parole adatte, significative, dense di segreti, al pari di autorevoli poeti, che ricercano le radici perdute di un territorio, nel quale si sono sedimentati gli umori di uomini, di bestie e di esseri viventi. È un teatro che ama raccontare storie e, dunque, affida molta della sua forza alla parola; essa esercita il suo potere nel momento in cui si manifesta, e grazie alla voce del narratore evoca persone, fa ridere e piangere, intenerisce e produce indignazione. Il suo teatro mostra l’eterno istinto dell’uomo a raccontare; Paolini vuole fare propri i registri narrativi, il Tragico, il Comico e l’Epico attraverso cui narrare i volti anonimi, o inventati delle generazioni passate, storie di amore e sopruso affinché tutto sia salvato dall’oblio senza giustizia e da chi vuole un paese senza memoria. Egli rivaluta il rapporto diretto fra scena e pubblico, fra attore e spettatore, anche se sente il bisogno di uscire dai teatri ufficiali, per approdarci solo alla fine, poiché li ritiene dei luoghi non in grado di far crescere un artista.
Paolini ha imparato a moltiplicare il punto di vista e ad assumere sempre più quello degli ultimi, degli sconfitti, fino alle bestie e alle cose inanimate del paesaggio inerme; il suo è un teatro che si scompone e ricompone continuamente, un corpo testuale, fisico e figurale che proprio nella radicale differenza delle storie raccontate trova paradossalmente il modo di farsi riconoscere, di rimanere sé stesso pur nella metamorfosi ininterrotta.
Il suo scopo è che alla fine di ogni spettacolo ogni singolo spettatore abbia la sensazione di aver ricevuto un invito a scendere per strada e incuriosirsi della cronaca di tutti i giorni.
Paolini non si serve della scrittura per comporre il testo della narrazione, tuttavia scrive moltissimo: appunti diaristici, riflessioni, brevi racconti, che prendono talvolta la via della stampa oppure confluiscono nell’oralità degli spettacoli.
Con gli spettacoli di Paolini, si riscopre il piacere e la necessità di raccontare delle storie e condividerle, utilizzando il mezzo televisivo come uno strumento di diffusione “popolare”. Come cantastorie del duemila questo attore monologante acquista una nuova autorevolezza proprio mettendo in atto una strategia radicata negli esseri umani: la necessità di scambiare esperienze, narrare e commentare i fatti e tramandare memoria.
Qualunque spettacolo è teatro civile, è anfibio, nasce e respira fuori dall’edificio teatrale: risponde dunque al bisogno di superare i modi produttivi e distributivi, ma anche le censure implicite, del sistema teatrale il quale non viene rinnegato, ma integrato ad altre possibilità e modalità di comunicazione e circuitazione. Perché il teatro civile si può fare anche dentro i teatri, ma nasce e si fa soprattutto nei fuori dai teatri, è un work in progress che cresce e si affina grazie al confronto diretto con il pubblico. È in qualche modo controinformazione, che cerca di diradare la manipolazione. Si pone come gesto militante, che trova il suo senso più autentico nel vivo del tessuto sociale, dove se ne sente la necessità e l’urgenza, là dove il conflitto deve trovare espressione e linguaggio.
Marco Paolini
Cristina Dipietro
Cristina Dipietro
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