Talora ho l'impressione che abbiamo una camera con due porte, l'una di fronte all'altra, e ognuno stringe la maniglia di una porta e basta un batter di ciglia dell'uno perché l'altro sia già dietro la sua porta e basta che il primo dica una sola parola e il secondo ha già certamente chiuso la porta dietro di sé e non si fa più vedere. Egli riaprirà, sì, la porta, perché si tratta di una camera che forse non si può lasciare. Se non fosse esattamente come il secondo, il primo starebbe tranquillo, preferirebbe, in apparenza, non guardare neanche verso il secondo, metterebbe lentamente in ordine la camera, quasi fosse una camera come qualunque altra, ma invece fa esattamente la stessa cosa presso la sua porta, talvolta persino tutti e due sono di là dalle porte e la bella camera è vuota. Di qui sorgono malintesi assillanti.Lettere a Milena, F. Kafka*
Egli è ebreo di cultura ed errante perché porta su di sé la croce della colpa della sua malvagità; nel senso di colpa egli si perde e di questo peso egli si macchia ogni volta che per suo volere erra nella malvagità di una solitudine personale che mai lo abbandona. Di questo male, di cui il mondo fuori ignora completamente l’esistenza ma di cui egli è sicuro, egli è vittima e carnefice al contempo. Nei luoghi sacri dell’amore egli si addentra per poi colpire non l’oggetto amato, bensì sé stesso. È questa colpa che cerca, è in questa colpa che incessantemente erra per perdersi o non perdersi affatto. Questa è la condizione di un uomo, Kafka, che seppe vivere attivamente nel verbo della parola scritta, muto, però, al confronto con ciò che diventava reale, con ciò che è più reale della vita: l’amore.
Manca un pezzo, un collegamento tra il mondo onirico estremamente individualizzato della condizione kafkiana e quello più tangibile e prosaico della «vita Activa» per citare la Arendt, anche lei ebrea, quella vita pratica dell’adulto che è tale perché ha abbandonato la dimensione fantastica del sogno-incubo. Secondo questa lettura Kafka dunque non avrebbe mai effettuato quel salto dalla età adolescenziale a quella adulta, restando un adulto che sogna.
Kafka è allora un sognatore (qui da intendere nel senso che egli viveva e realizzava le sue opere nella dimensione onirica, come oramai è concorde gran parte della critica). Kafka è un adolescente perché rinnega quello che gli uomini della realtà - quest’ultima opposta al sogno - chiamano “amore”, intento com’è a ritrarsi nel mondo oscuro, pieno di angoscia di Kafka scrittore e visionario. Gioca quando scrive opere illusionistiche e allegoriche, propone storie inverosimili e mutazioni irreali, e di ciò la sua natura ne trae un godimento immenso. Nel suo essere paria, figura eccezionale perché non è conforme, perché non si conforma, emerge il bambino egoista che Kafka è, scontrandosi con la morale “per bene” e “adulta”, ossia con la società della necessità** accettata, che lo vorrebbe sposato con Felice – pure abbandonata due volte – o con la giovane traduttrice delle sue opere in ceco: Milena.
Una foto di Milena |
La storia con Milena è una storia d’amore epistolare, vissuta con una intensità tale che fa scrivere a Kafka, in più lettere, quanto lui sentisse la donna fisicamente a lui vicinissima, come se ne potesse ascoltare il respiro o avvertire i movimenti. Lei, giovane traduttrice di famiglia benestante, sfida la collera del padre che la ripudia e sposa Ernst. Il matrimonio infelice con l’uomo, unito al trasferimento di Milena a Vienna, deve avere avuto una forte impressione sulla donna. Nelle lettere che Kafka le scrive emerge più volte il tema della città di Vienna e il consiglio di trasferirsi altrove, in un’altra città. Purtroppo le lettere di Milena indirizzate a Kafka non sono mai state ritrovate e dunque è possibile ricostruire la storia d’amore solo attraverso le epistole di lui.
L’atteggiamento in amore di Kafka non si distacca dalla figura di paria e di ebreo, in generale comunque di quegli spiriti sui quali grava un destino a loro avverso che li confina altrove o meglio li “sconfina” dalla realtà data. Nella solitudine del paria senza patria si compie però in Kafka un processo di affermazione della nullità non dello “sconfinato” da ogni società, bensì, al contrario, di “ognuno” che è invece uno dei tanti “nessuno” sociale.
Così anche in amore, a confermare la posizione o indifferenza sociale del paria, Kafka non appartiene alla realtà data: egli è un ebreo errante dell’amore, un paria dei sentimenti perché è soprattutto nella sfera sociale degli affetti che egli non ha patria e nell’amore egli riconosce l’affermazione di quella società sociale alla quale la gente normale tende, fonte per lui però di frustrazione e tormento, di allontanamento dalla sua vera “patria” interiore.
Così anche in amore, a confermare la posizione o indifferenza sociale del paria, Kafka non appartiene alla realtà data: egli è un ebreo errante dell’amore, un paria dei sentimenti perché è soprattutto nella sfera sociale degli affetti che egli non ha patria e nell’amore egli riconosce l’affermazione di quella società sociale alla quale la gente normale tende, fonte per lui però di frustrazione e tormento, di allontanamento dalla sua vera “patria” interiore.
Le vie d’uscita presentate dalla Arendt nel suo studio sulla condizione dello Schlemihl dell’Ottocento sono due: la prima vedrebbe l’allontanamento volontario dello Schlemihl all’interno di una comunità parallela di paria distaccata da quella della società reale, e caratterizzata da atteggiamenti bohémien. La seconda vede l’accettazione da parte del paria, o Schlemihl, della realtà con il conseguente incontro con un certo gusto dell’arte e della cultura in generale che sfocia nel forzato e, dunque, in quel modo non individuale di comprendere il tutto. Di sicuro la scelta di Kafka non va in nessuna delle due direzioni. Sceglie di continuare ad essere un paria della società, uno Schlemihl della storia ebraica ritraendosi anche di fronte all’amore.
Il nascondimento di Kafka adulto dinanzi alle scelte di un possibile matrimonio è il nascondino perenne di una natura umana perturbata e malata che gli fa scrivere:
Sono malato di mente, la malattia polmonare è soltanto uno straripare della malattia mentale. Sono tanto malato dopo i quattro, cinque anni dei miei due primi fidanzamenti.
È una natura malata perché diversa da ciò che la società ha deciso rientri nella categoria del normale. La stessa società adulta delle decisioni anti-dongiovanni e pro marito, però, è la stessa società dalla quale Kafka, in quanto paria, si sente alienato ed espulso, errante in quanto ebreo:
Perciò i miei 38 anni di ebreo, di fronte ai Suoi 24 di cristiana, dicono: Come va questa faccenda? […] hai soltanto paura dell'enorme stanchezza che seguirà questa enorme inquietudine e (non per nulla sei ebreo e sai che cosa sia l'angoscia) […]
Cos’è allora la donna se non l’incarnazione più dolce del male, ciò che ricorda al Kafka paria dei sentimenti che a lui essi sono proibiti? Cos’è se non il “si” sicuro e perentorio della grazie fertile da fecondare, a lui non concessa?
Nelle sue lettere a Milena Kafka scrive di Ernst, marito della donna «[…] egli mi è molto superiore» e qualche riga più in basso elogia Milena perché «[…]quando sei andata da lui [Ernst], hai fatto un gran passo in discesa dal tuo piano, se poi vieni da me balzi addirittura nell'abisso». Dunque Ernst marito di Milena è superiore a Kafka e Milena è di gran lunga più in alto di Ernst e dunque ancor più distante da Kafka. Il confronto negativo dal quale Kafka esce sempre battuto, secondo le sue stesse convinzioni, coincide con la posizione che pone l’ebreo errante in una situazione di marginalità, di sconfitto al cospetto della storia reale. Un confronto dal quale Kafka risulta perdente solo ad una lettura superficiale. Anche qui lo scrittore potrebbe aver giocato a nascondersi perché è solo rivelandosi alla realtà che egli avrebbe perso contro la società alla quale si sarebbe consegnato.
Rinunciare a Milena, come alle altre donne da lui abbandonate, coincide con la riappropriazione e affermazione del sé, con la salvezza dall’impatto con la società del marito di stampo kierkegaardiano, o anche con la Wille schopenhaueriana.
Così nel sogno descritto in un’altra lettera a Milena, Kafka si scopre nel suo egocentrismo triste e angustiato per sé, come se il suo io lo rimproverasse delle sue stesse inclinazioni. Nel sogno Kafka siede accanto a Milena, la quale con garbo lo allontana. Egli si sente infelice «non perché mi respingevi, ma per me che ti trattavo come una donna muta qualunque e non facendo attenzione alla voce che veniva da te e parlava proprio con me. O forse non era che non vi prestassi attenzione, ma non avevo potuto risponderle». Quella voce di donna alla quale Kafka nel sogno non ha potuto rispondere, potrebbe coincidere alla voce della donna che incarna nella realtà la scelta che ogni uomo, presto o tardi, assume su di sé: «Ecco, e ora Milena ti chiama con una voce che con ugual forza ti penetra nel cervello e nel cuore». Ancora, la voce si oppone al significato muto delle parole nelle quali lui bypassa il conflitto della realtà come scelta. Andare a Vienna o no, restare relegato al di fuori della realtà oppure conoscerla, toccarla con mano attraverso l’incontro della donna in carne ed ossa e non più nelle segrete fantasie oniriche? Ma di fronte alla possibilità che diventa reale Kafka è paria par excellence:
[…] va' pure davvero a Vienna! Milena pensa soltanto all'aprirsi della porta. Questa, sì, si aprirà, ma poi? Poi vi apparirà un uomo alto e scarno, sorriderà gentilmente (lo farà sempre, lo ha preso da una vecchia zia che anche lei sorrideva sempre, ma entrambi non lo fanno con intenzione, soltanto per imbarazzo) e si metterà a sedere dove gli sarà indicato. Con ciò la festa sarà terminata poiché egli quasi non parlerà […]
Kafka tace ritraendosi in un mutismo solitario in cui l’uso della parola è però essenziale. Egli si innamora, infatti, delle parole di Milena, ma alla sua voce e alla sua richiesta di donna egli oppone il silenzio di chi già sa che l’esilio è appena iniziato.
*Franz Kafka, Lettere a Milena, Mondadori, Milano 1979
**Hannah Arendt, Il futuro alle spalle, Il Mulino, Bologna 1995, p. 25.
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