Visto da lontano, allo scurire, Melagravida sembra un grappolo di steariche accese sopra una nuvola. I lampioni dondolano nelle strade come uomini appena impiccati. Culi di luce spaccati da una sottile lama di vento dicembrino. Dentro scatole di granito la gente si copre d’orbace e non riesce più a sognare. Nel buio ruvido si dorme un sogno espiatorio, in attesa del sole che all’alba spara sui tetti la sua farina ambrata dalla punta calcarea di monte Tumbacanes.
Già dall’incipit de Il lago dei sogni, l’ultimo romanzo di Salvatore Niffoi, si capisce che lo scrittore sardo è uno che ha «il senso della frase», come direbbe Pinketts. Ci sono acuti lirici che mi ricordano Vincenzo Consolo, anche per le ambientazioni, di questo come d’altri romanzi, in una Sardegna quasi fuori dal tempo, in un luogo mitico e in un certo senso epico.
È la prima volta che leggo Niffoi e forse è per questo che mi chiedo come sia possibile dare ai personaggi delle vicende narrate nomi come: Itria Panedda Nilis, la protagonista, Tzesiru Baffia, Limedda Ruzzosu, Meruliu Triozzu, Bachis Tamata, Dindinu Trunzone, Matheu Juvale, Tanielle Cassarolu, Dilisca Vrentitunda. È come coi film cinesi o coreani: non si riesce a seguire la storia perché i nomi si dimenticano facilmente e i volti si confondono l’un l’altro. Peggio che nei testi di Verga, è tutto un fiorire di nomi (a me) sconosciuti, certamente causati dell’acuta forma di «isolitudine» della Sardegna.
Ma davvero in Sardegna c’è gente che si chiama così? A parte questo Niffoi scrive da Dio!
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