Che gli uomini vivi e domestici, i glabri progressisti sappiano che colui che siede accanto in tram può cavare di tasca un rasoio e segargli la gola; e sarà un festoso fontanare di sangue sulle giacche degli immortali tramviari.“L’archimandrita dei demonofili al suo gregge”
Non ho alcun dubbio: se Dio esistesse scriverebbe come Giorgio Manganelli. O forse no. La sua devozione “religiosa” all’infinito repertorio di parole che custodisce e adopera come cosa sacra, e forse anche il suo sadico gusto nell’indugiare su violenze e meschinità lo fanno, forse, limitrofo al divino. Ma «il gran sordomuto eterno», come lo definì Carlo Dossi, forse mai si spingerebbe come lui negli altrimenti inviolati territori della letteratura italiana.
Se siete di quelli che non apprezzano la scrittura “ipercalorica” e preferite la prosa piana, regolare, pulita, insomma “educata”, cessate immediatamente la lettura di questo articolo, cassate dalla vostra mente il nome di Manganelli: per voi questa lettura sarebbe un inferno. Se invece vi ha persuasi Hilarotragoedia o Nuovo Commento o La notte avete un dovere verso voi stessi: correre in libreria e comprare Ti ucciderò, mia capitale, l’ultima raccolta del «Manga» pubblicata da Adelphi.
Per la verità al dovere verso voi stessi si unisce un fastidioso dovere verso la casa editrice, che per questo libro chiede la somma furfantesca di venticinque euro: pazienza, leggerete un Moccia in meno, quest’anno.
Io non amo molto le avventure fantastiche alla Swift – che era invece uno degli autori prediletti da Manganelli – ma quando a guidarvi è la sua musica, le sue sinfonie da leggere (a voce alta) si resta come rapiti: «[…] così l’omicida, l’uomo pazzo d’amore per il sangue altrui, lo sfregiatore di volti, il cauto agguantante, il microdìo che lancia lance, avventa rovente vento di revolver, irradia decessi, è l’uomo che ricorda che solo grazie a una menzogna topografica il mondo risulta sferico […]».
La sua prosa sanguinolenta, il suo onirismo nero trasuda pagine d’un’iconoclastia gotica:
Da sempre l’ultimo giorno è dentro di noi. L’effimera nostra durata è tale da inserirsi in una vibrazione del terremoto conclusivo. I morti da tempo si muovono nelle tombe. Da tempo camminano tra noi. L’estate e l’inverno sono stagioni di tortura. Già l’universo è giudicato. Già è condannato. Già è perito. Noi siamo l’inferno dell’universo, noi siamo la sua morte. Noi, i suoi vermi, la sua distruzione, la sua fine. La malattia da sempre ha vinto. Noi sue piaghe da sempre lo consumiamo. Noi suo sangue da sempre ci disperdiamo.
Salvatore Silvano Nigro ha curato questa raccolta di inediti stesi fra il 1940 e il 1982; alcuni scritti, cioè, risalgono a un Manganelli appena diciottenne ma già sovversivo alchimista di vocaboli.
Il testo che dà titolo alla raccolta, “Ti ucciderò, mia capitale”, è la singolarissima descrizione degli istanti che precedono l’omicidio (l’uxoricidio?) che il protagonista vuole compiere della donna che dorme accanto a lui. Il corpo femminile è descritto come una città, una planimetria anatomica:
Ti ucciderò, mia capitale; mio quartiere residenziale; sede del mio deportato governo; mia Stadt; esilio di turbolenti anarchici. Farò suonare i miei letali ottoni nell’auditorium del tuo teschio, e ci sarà uno scrosciare di frantumati ossami, si arrosseranno le lanterne oculari. Si ritrarrà la platea della lingua, si sfonderà il tetto del palato, il palcoscenico sarà affollato di estranei: sfregerò le tue circonvoluzioni.
L’atmosfera si fa solenne e cupa, la sua determinazione vacilla:
I tuoni, rari e lontani, testimoniavano di una faticata digestione di morti; essa, la notte, si nutre di cadaveri, ma non sempre li trova di suo gusto. La Preziosa Rivoltella mi guidava nelle tenebre; giacché ne veniva un sussurrio oscuro e fondo, parole uscivano dalla canna, e il caricatore era pieno di sillabe e accenti e virgole e a capo che attendevano di conglutinarsi in frasi rivelatrici. Ma poiché quei rumori erano non di rado oscuri e confusi e come appartenenti a molte lingue, sostai sotto un lampione e mi accostai la Preziosa Rivoltella alla tempia.
Stupefacente è il racconto “Addenda”, ove si narra che un gruppo capeggiato da un «archeofilologo», in un luogo a sud dell’Equatore africano, scopre, da una singolare fenditura del terreno, una cavità, come un gigantesco teschio ove si udiva una «mischianza di sillabe», «obnubilanti ardori fonici» in un «frettoloso svaporarsi di lamentazioni». Quel luogo è «un sepolcreto di preistoriche sillabe», cimitero di vocali e consonanti estinte. Uno dei dotti partecipanti alla spedizione azzarda una ipotesi: che gli organismi primigeni siano in realtà forme verbali e che i sauri altro non sarebbero che proposizioni composte, i rettili i condizionali e così via, in un universo interpretato come testo letterario.
Sorprendente è pure il suo ostinato ateismo e la derisione che riserva al cattolicesimo:
Dio non c’è. Puoi cavare le viscere a tua sorella, puoi limare il cranio d’una bambina fino a fare spiccinare il cervello, puoi cuocere il tuo migliore amico, cavare le unghie i denti gli occhi il fegato di tuo padre, puoi giacere – se ci riesci – con tutte le tue consanguinee e nemmeno la scriminatura si muoverà a quel lucido, correttissimo, urbanissimo niente che è Iddio.
[…]
Ma Dio ha i suoi collaborazionisti: un giorno dovremo ammazzarli, come cani. Abbiamo già cominciato il venticinque aprile: occorrerà riprendere. Vuoi riconoscere i suoi collaborazionisti? Vestono come lui: di orbace; salutano romanamente, dicono «O Roma o Mosca», difendono lo spirito, l’anima, l’idea. I fascisti: gli scherani di Dio: i suoi simili. Dio è fascista. Dove c’è una gerarchia pratica che vuole essere gerarchia morale, dove il caporale conosce più verità del militare di truppa, c’è fascismo, c’è Dio.
[…]
Ma Dio ha i suoi collaborazionisti: un giorno dovremo ammazzarli, come cani. Abbiamo già cominciato il venticinque aprile: occorrerà riprendere. Vuoi riconoscere i suoi collaborazionisti? Vestono come lui: di orbace; salutano romanamente, dicono «O Roma o Mosca», difendono lo spirito, l’anima, l’idea. I fascisti: gli scherani di Dio: i suoi simili. Dio è fascista. Dove c’è una gerarchia pratica che vuole essere gerarchia morale, dove il caporale conosce più verità del militare di truppa, c’è fascismo, c’è Dio.
Ogni rito, ogni sacralità Manganelli deve destituire, imbrattare di parole colleriche e sconce («Il nostro Signore del cancro e dei dementi ci avverte che non c’è natura, non c’è legge, non c’è ordine, se non là dove si è eretto un muro alla perfidia del sacro»). Ma anche l’operazione inversa è abituale: «[…] l’omicida e l’assassinato formano un sistema, e senza uno di essi, l’omicidio non esisterebbe; dunque se parlo di omicidio, è come se parlassi di coniùgio, di amplesso, di matrimonio».
È un universo ammalato e decadente, quello descritto dallo scrittore milanese, «un gigantesco tumore cresciuto nel cuore del nulla», abitato da grottesche capriole della fantasia:
Vedo in un angolo una pila di vocali, quello che rimane di un empio trattato sulla decadenza degli angeli; non facesse così freddo, forse chiacchiererebbero tra di loro, ma stanotte si stringono l’una all’altra, preoccupate solo di farsi un poco di caldo. Ogni mattina trovano cataste di vocali morte, le scopano via con sacrilega sollecitudine.
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