Nel mondo c’era la Testa. Poi venne la Croce. Allora Testa e Croce si misero a giocare a testa e croce, e tutto il male viene da lì.Alberto Savinio, Occhio n. 6
Alberto Savinio, L'annunciazione, 1932, coll. priv. |
Avevo letto di Savinio solo una cosa, la raccolta di racconti Casa «la Vita», e già avevo ammirato la sua lingua pastosa, riccioluta, insolentemente inutile. Alberto Savinio ha sempre (ingiustamente) sofferto la “sindrome del fratello famoso” («Savinio?», «si, il fratello di De Chirico»). Non lo meritava, lui che aveva ideato col fratello la Metafisica e che aveva finito per non goderne la fama indaffarato com’era ad arrischiare nuove strade e nuove forme d’espressione e forse, come si vocifera, volontariamente oscurato dal fratello, col quale ruppe ogni rapporto dopo anni di benefici traffici artistici.
«La morte di un immortale», ha commentato Giorgio Manganelli la sua prematura scomparsa, nel 1952, povero e senza quella notorietà che gli era concessa solo in certi ambienti intellettuali.
La lettura della raccolta di racconti Tutta la vita, ripubblicata quest’anno dalla Adelphi, mi ha indotto a cercare di testimoniare la grandezza della sua prosa e l’originalità di questi racconti, «alcuni dei quali sono […] i più singolari e profondi che siano stati scritti in lingua italiana, e non solamente in questa lingua», secondo la sfacciata ammissione dell’autore.
In “Paradiso terrestre” narra di una singolare bottega «alla congiunzione della via Tolomeo con via Copernico». Questa bottega «Aveva per insegna un ilare diavoletto che con la punta della coda sottile, lunghissima e avvolta a spirale intorno al corpo, si titillava l’orecchio sinistro. Il nome della bottega era Ai capricci di Belzebù, i quali capricci erano sciorinati in due mostre ad allettare il passante, una affacciata sulla via Copernico, l’altra sulla via Tolomeo». In questa misteriosa bottega, collocata «alla congiunzione di due concezioni del mondo opposte fra loro ma che riunite assieme esauriscono il problema dell’universo», ove si potevano acquistare innocui scherzi adolescenziali, la mamma del protagonista di questa storia, Didaco detto Padreterno, compera un minuscolo alberello di legno per il suo bambino. Il piccolo Didaco è solo un infante, non ha ancora acquisito quel soprannome – Padreterno – che proprio a seguito dell’acquisto di quell’alberello avrà modo di guadagnarsi. Non è un caso se l’alberello stava esposto sulla via Tolomeo, perché «Tolemaico significa finto; significa soprattutto fisso e inalterabile, ossia diverso dalla vita reale che è alterabile per sua natura e passeggera». Tolemaico, in fondo, è il mondo degli uomini: «Costruire rimane pur sempre l’ideale dell’uomo, ossia tenere viva questa finzione necessaria dell’immobile e del duraturo; e l’uomo continua a costruire, con le mani e col cervello, con le macchine e con l’arte; costruire, costruire, costruire; dal minimo oggetto a Dio: questo supremo capolavoro dell’uomo».
In autunno il piccolo Didaco vide che gli alberi del giardino di casa sfiorivano, mutavano sembianza perdendo le foglie, ma il suo alberello rimaneva sempre uguale a se stesso: «di colpo la sua simpatia e la sua fiducia andarono al mondo di cui faceva parte il suo alberello, al mondo immutabile e fisso, al mondo di Tolomeo; e Didaco per la prima volta si sentì uomo, ossia costruttore e conservatore; per meglio dire, costruttore di conservazione; per dire meglio ancora, costruttore per volontà di conservare».
E così passano gli anni e Didaco si guadagna il nome di Padreterno, essendo diventato il più grande imbalsamatore d’Europa. Ma un pensiero capriccioso lo pungola ripetutamente: perché aspettare che la vecchiaia, col suo sgarbato decadimento, deturpi la gioventù delle bestiole che imbalsamava? Perché non “fissare” l’adolescenza inquieta, perché non uccidere volontariamente per consegnare all’eternità la loro fisionomia migliore? L’anziano Didaco si dedicherà al suo progetto più ambizioso: il «paradiso terrestre», che attuerà dopo aver sposato una giovanissima donna.
E così passano gli anni e Didaco si guadagna il nome di Padreterno, essendo diventato il più grande imbalsamatore d’Europa. Ma un pensiero capriccioso lo pungola ripetutamente: perché aspettare che la vecchiaia, col suo sgarbato decadimento, deturpi la gioventù delle bestiole che imbalsamava? Perché non “fissare” l’adolescenza inquieta, perché non uccidere volontariamente per consegnare all’eternità la loro fisionomia migliore? L’anziano Didaco si dedicherà al suo progetto più ambizioso: il «paradiso terrestre», che attuerà dopo aver sposato una giovanissima donna.
La geniale follia di Didaco ricorda quella di Jean-Baptiste Grenouille, il protagonista de Il profumo di Süskind, mentre la sua ossessione, che verrà attuata alla fine del racconto, ricorda Freddie, Il collezionista di William Wyler.
In “Casa della stupidità” il gusto per il soprannaturale di Savinio sconfina nella satira politica. Il protagonista, uscendo da un nobile palazzo, sente una voce che lo interroga ma non ne scorge il possessore. Dovrà accettare l’assurdo: a parlare è stato un telamone, uno di quei pilastri scolpiti a forgia umana che, accoppiati, fiancheggiano i portoni d’ingresso dei palazzi a ostentarne nobiltà vanitose. Il telamone gli chiede se ha definitivamente abbandonato il palazzo o è intenzionato a rientrare. Sconcertato, il protagonista risponde che non sarebbe più rientrato e il telamone gli comunica, soddisfatto, la sua intenzione di andarsene e abbandonare il palazzo all’inevitabile conseguenza: il crollo. Perché? Chiede l’uomo – probabilmente Savinio stesso –, per le colpe che il telamone attribuisce agli abitanti di quel palazzo; «E dove hai trovato tanta piena di colpe?» insiste, «Qui in questa casa che mi reggo sulle spalle. Colpe no ma stupidità, che è madre di tutte le colpe. Stupidità a tutti i piani, in tutte le camere, nei corridoi, nei ripostigli, dalla cantina al solaio»; conclude il telamone: «ti par giusto che io mi stia ancora a reggere sulle spalle questa casa piena di uomini stupidi?». L’uomo è interdetto, confuso e spaventato, prova una vaga difesa: «Giusto davvero non direi, ma se si dovessero tirare giù tutte le case che ospitano uomini stupidi…». Ma il telamone è deciso:
Né io m’incarico delle altrui case ma solo di questa mia, e lascio le altre ciascuna ai suoi telamoni. Vuoi che te lo dica? Questa casa non mi sarebbe venuta tanto a schifo se sapessi che quassù c’è un solo inquilino disposto ad aprire la finestra e a buttarsi di sotto per riscattare con la sua morte la stupidità propria e quella degli altri inquilini. Voi uomini dite che siete riscattati dal peccato originale. Ma dalla stupidità originale chi vi riscatta?
Non è un caso se in questo racconto, scritto originariamente nel 1942, il telamone schifato da tanta stupidità sia quello di sinistra, mentre quello di destra «È uno di quelli che godono nell’adempimento del dovere per la sola gioia di servire, senza esaminare se il dovere cui adempiono serve davvero a qualche cosa». Non è un caso se, prima della rovinosa caduta del palazzo, in un boato di luci scintillanti e manifesti a caratteri cubitali par di leggere una metafora della propaganda fascista.
In una nota a conclusione del racconto si accenna ai grandi uomini che erano stati inquilini di quel palazzo: «Alcuni politici che hanno diretto la sorte del mondo. Alcuni generali che si sono coperti di gloria. Alcuni scienziati di fama mondiale. Un grande filosofo. Alcuni celebri artisti». Inutile lasciarsi andare al facile gioco dell’individuazione dei riferimenti, è andata così. Ci avverte Savinio: «Si scambia di solito per intelligenza quello che in verità non è se non fertile e brillante stupidità».
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