I “Poveri cristi” di Brunori Sas ricordano quelli di Rino Gaetano, e con quest’ultimo il cantante calabrese ha molto in comune, sebbene Brunori appaia più edulcorato e meno pesante. Il cantautore “societario” Brunori Sas, come Rino Gaetano, è cantore dell’Italietta reale, ma Brunori canta il suo paese ai tempi dello spread, quello con le tasse da pagare e i suicidi, nelle canzoni di Brunori però non riusciti e quindi con finale a commedia. Con serietà ed ironia Brunori racconta del giovane Mario, che potrebbe essere ognuno di noi. Quando inizia la sua vita al contrario, Mario prova ad uccidersi e si ritrova in un letto d’ospedale a causa di un lampadario sulla testa, a seguito del solaio che crolla. La tragedia italiana è accompagnata e raccontata dalla inconfondibile chitarra Brunori con ironia ma non con scherno, una forma di clownerie composta da chi sa che, in un momento di crisi come questo, non può che registrare le peripezie goffe di storie al sapore di una commedia con lieto fine. Anche quando l’happy end sfuma proprio sul finire della canzone, come nella migliore tradizione dell’italiano disinvolto e medio, la tragedia non è la conclusione, la chiusura della speranza sul futuro, bensì è presa di coscienza tra il sornione e il sicuro incidere di chi non può che sperare che al di là della porta debba esserci il portone. Dietro la porta, nei testi del cantautore calabrese, c’è la vita vera fatta di Santi, Madonne e Padre Pio, di tradimenti, invalidi civili e dell’adolescenza passata, i cui ricordi segnano il passaggio nell’età adulta di ogni italiano ai tempi dello spread economico.
Così anche l’amore cantato da Brunori non sfugge alla tragicommedia dei nostri tempi. Vi è il tema dell’operaio «che va a fare fortuna» in una fabbrica del nord Italia per sposare «Rosa» perché: «senza un lavoro non si tira a campare (..) che qui in Calabria non c’è niente, proprio niente da fare c’è chi canta e chi conta e chi continua a pregare». Alle speranze di una casa, pagate con cambiali che «se lavoro sedici ore al giorno ce la posso fare», Rosa dovrebbe occuparsi di bomboniere e avvertire il prete dell’imminente matrimonio. Ma qualcosa non va per il verso giusto. Durante le estenuanti ore di lavoro il malcapitato promesso sposo perde una mano, mentre la sposa cambia il nome del futuro marito sulla partecipazione. L’atto finale è comicità nella tragedia consumatasi:
«Rosa domani si sposa vestita da sposa, non si sposa più con me»
Alla perdita del lavoro, e della dignità, al debole di turno non è risparmiata l’umiliazione finale, quella dell’amore distrutto ai tempi dello spread, appunto. Al debole, risultato ambiguo di una società che toglie dignità anche alla più flebile speranza di futuro all’ uomo del sud, con la perdita di un lavoro che lo Stato non riesce più a garantire, è preclusa anche la speranza più umana di coltivare un sentimento. I tagli e la crisi economica europea colpiscono dunque anche gli affetti. Ma sono proprio gli affetti che nello scenario di Brunori sono il vero nervo scoperto dell’italiano, e non la politica. Prendiamo Paolo: «non sa chi governerà, sa soltanto che vuole un amore che gli scaldi l’anima ed il cuore che gli dia la mano in riva al mare». E via con le preghiere a Dio e a Padre Pio, protagonisti dietro le quinte in non pochi dei testi di Brunori. I riferimenti alla Chiesa dal retrogusto di tradizione ripudiata dalle nuove generazioni nelle terre del Sud Italia di oggi, ricorda che alla fine l’italiano medio ai tempi della crisi, mette da parte il costume da bohémien e torna a rivolgersi a santi e figure affini. Popolo di Santi, dunque, gli italiani.
Si piange per non ridere, sembrerebbe essere il motto di Brunori, se anche le esperienze più negative sono raccontate da Brunori come storie di storie ribaltate, con tanto di finale inaspettato. Gli stessi personaggi, dipinti nella loro superficialità e leggerezza, sono come rovesciati nella scena finale, sempre deboli vittime degli eventi ma dignitosi nel collasso finale. Così il vis-à-vis tra due amici assume i toni di una vicenda sarcastica alla Amici miei. Come nel film di Monicelli una donna si frappone nell’amicizia tra due amici, con peripezie tanto ingegnose da illuminarci abbastanza bene sull’intero costrutto dei rapporti interpersonali tra individui. La donna, o meglio «il suo sorriso», complice una giornata di pioggia, chiede un passaggio perché è senza ombrello. Peccato che l’amico seraficamente ammetta: «Sì, ma mica ce l’avevo io». La donna carnefice ha così deciso come andrà a finire e, sorridendo, confonde il malcapitato che cade «vittima del suo sorriso». La debolezza dell’uomo, che cede alla seduzione della donna del suo amico, è solo uno dei tanti aspetti dei personaggi reali, per nulla speciali, le cui connotazioni riflettono non solo il prototipo dell’italiano medio, bensì di una intera cultura di una classe. Che questa classe sia subalterna o non, non si riesce in alcun caso ad emergere da una crisi in cui principi, stile di vita ed economia, sono irrimediabilmente caduti. Così il riscatto finale di un’amicizia macchiata, la salvazione dei buoni sentimenti, è affidata nuovamente al debole tradito e mortificato (dall’amico e dalla sua donna), il quale, seppure in un canto di disperazione, assolve il male a lui arrecatogli, e mentendo afferma: « (…) ma io non penso male no... Non sto nemmeno male, infatti canto aaah, dairiraaaa»
Le note tristi che accompagnano il nome di Bruno nel pezzo dall’omonimo titolo, rimandano alla perdita del padre di Brunori. Emerge un senso di amarezza nel comprendere che la felicità sta in quel pacchetto di «sigarette sul comodino e un cruciverba poco più in là» e nell’immagine venuta a mancare della figura paterna addormentata davanti alla tv. Anche qui è descritta una scena di vita come tante, che si ripete tutti i giorni, una scena normale, non speciale, che sembra non avere significato. La routine spenta di immagini di vita come queste, appunto quasi banali, si potrebbe ora ammettere, sono invece pregne di importanza, rifuggono dalla banalità di chi le osserva e di che le fa. Queste scene apparentemente banali sono come le vite di chi le vive, in maniera attiva o passiva, emanano la forza della semplicità dispersa in azioni quotidiane, che sono, così, distrattamente banalizzate, indebolite. La dolcezza scandita dal solo suono della chitarra Brunori è leggera e toccante quanto l’indicibile e inconfessabile bene di un padre verso il figlio: «mi hai amato da sempre, anche se non me l'hai detto mai».
La Chiesa, la spesa fanno rima non solo nel testo di Bruno, ma anche nel quadro di vita quotidiano che non è solo quello del cantautore, ma appartiene a ognuno di noi; l’esperienza del distacco forzato «perché non è facile sapere che non tornerai più» e «che senza di te io non riesco a combinare niente», si combina ai ricordi di un passato che segnano il confine tra il periodo adolescenziale andato e una maturità accaduta e improvvisa.
Brunori con le sue canzoni si pone in una zona limite tra la figura dell’italian dandy, un po’ irreale e leggero, e le esperienze reali fatte di malinconie e tristezze, ricalcando così nell’immaginario collettivo la figura di un Fantozzi del terzo millennio. Quella del ragioniere non è affatto «una vita speciale», bensì quella di un debole della società, appunto, che sebbene sia vessato e umiliato, a lavoro come nella vita privata, a lui nella tragedia è dato, però, il riscatto in chiave comica. Questa «vita normale» è così speciale che «la voglio cantare», accentua Brunori. Il riscatto di tutti noi, Fantozzi per caso ai tempi della crisi.
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