Marina Abramović | Gillian Wearing |
Venute al mondo per smuovere le nostre coscienze attraverso lo shock artistico, Marina Abramović - classe 1946, di Belgrado – e Gillian Wearing – 1963, Birmingham – sono due artiste equidistanti di uno stesso piano orizzontale. Simbolo di una società mutata troppo in fretta, i contorni amorfi, liquidi – per riprendere la fortunata definizione del sociologo Bauman – e a tratti horror di una modernità mutilata, spiccano nelle loro opere per contrastare la ferma (finta) mobilità di esistenze in fuga eppure inscatolate.
La Wearing scuote il pubblico, e le sue coscienze, rompendo clichè ipocriti che ci chiudono nel modello precostituito e pronto all’uso di abitanti felici a ogni costo, soddisfatti – o sfatti? – di un capitalismo tecnologico tutto a nostro vantaggio. Lo scorrere delle nostre vite abitudinali e impregnate di soddisfazioni viene fermato da una macchina fotografica, il cui pulsante resta sospeso nella sua funzionalità prêt à utiliser, nell’attimo eterno, sessanta minuti, che Gillian Wearing ha intitolato sixty Minute Silence (1996). Uomini e donne in uniforme da polizia aspettano il click di un momento, l’attimo di liberazione che li affranchi dalla posa ferma di chi è fotografato e dunque costretto all’ordine dell’occorrenza. Ai veloci ritmi societari, di cui lo scatto fotografico è espressione emblematica, si contrappone una performance lenta, l’immagine di volti ed esistenze ferme durante i sessanta minuti di sospensione esistenziale. A fissare l’uomo nell’arte della Wearing, è una macchina fotografica, espressione della tecnica che egli stesso ha creato e che ora lo assoggetta, o alla quale si lascia assoggettare, per riflettere in modus retroattivo. Settecentotrentasei ore e trenta minuti sono, invece, gli attimi eterni dell’immobilità di Marina Abramović. L’artista di Belgrado, diversamente dalla Wearing, ha vissuto la sospensione temporale immobilizzando se stessa, e il suo io, su una sedia mentre di fronte a lei si alternavano, sedendosi a turno, millequattrocento persone, duemilaottocento occhi fissi negli occhi dell’artista. Il risultato è stato emotivamente coinvolgente ed emozionante che ha portato alle lacrime alcune delle persone coinvolte in questa sorte di esperimento artistico-emozionale.
L’arte femminile della Abramović e della Wearing si distingue per essere molto più di un dipinto da ammirare, nel loro genere il fruitore dell’opera artistica deve entrare nella sperimentazione di questa, esserne coinvolto fino ad esprimere emotivamente quello che l’arte tradizionale lascia alla persona stessa. L’arte che punta al cuore dello spettatore-attore è l’interpretazione di una esigenza artistica fondamentale e pressante per entrambe le artiste, interpreti di un momento storico in cui il medium artistico ha assunto un ruolo rieducativo di un’umanità in crisi. Sembra che l’arte non possa fuggire lontano dall’uomo ma che debba aiutarlo a rivedersi e rivedere la propria immagine proprio attraverso essa, in uno scorcio culturale in cui l’arte stessa si è piegata alla vuotezza di un uomo incapace di fare arte.
I am Desperate, sono disperato scrive il corpo di un uomo vestito bene in giacca e cravatta, l’uniforme di chi ha raggiunto un’ottima posizione mentre è esasperato da un dissidio interiore che urla il suo contrario. Questo urlo di disperazione è il contrario del bell’artistico, denuncia di un’umanità sconfittasi, che la Wearing può esprimere mediante l’arte. Sfruttare le immagini reali di persone normali e realizzarne opere artistiche è la via che l’artista britannica ha intrapreso per trascendere l’arte stessa e riportarla ai confini di una normalità decadente. Si tratta, dunque, di un trascendentale che preme verso il basso, il fondo, e che rifugge la pura bellezza per attaccarsi alla sola realtà inibitrice. Se la Wearing si ferma all’illustrazione filmica e visiva dell’arte snaturata, la Abramović vuole superarla nella convinzione che nella liberazione di un soggetto, come in una reazione a catena, tutti gli altri possano sciogliere le catene di un male esistenziale moderno. L’arte parla ed espone la materia del contesto storico in cui viene a trovarsi, l’arte delle due artiste “parla” poco e impone la scelta dal sapore dell’ammonimento nietzscheano «diventa ciò che sei» traendo immagini e sensazioni da una realtà che ostacola il libero raggiungimento della individualità. La Abramović invita gli spettatori delle sue performance a farne parte, ad esserne coartisti, coinvolgendoli a scegliere emotivamente. La scelta imposta dall’artista non può essere evasa come quando con il suo corpo posto vicino a quello del suo compagno di vita e di arte Ulay, il fruitore deve decidere quale corpo sfiorare, quale evitare per andare oltre lo spazio stretto che gli impedisce il cammino (Imponderabilità).
A suo modo anche l’artista britannica lascia al pubblico la decisione di diventare ciò che vuole, ciò che è: alcuni schermi posti in box coperte ed isolate rilasciano interviste di uomini e donne con parrucche, maschere, dietro le quali celare una identità distrutta da violenze subite o vissute di ogni genere.
Quali madri? Che madre vuoi essere? Cosa significa essere madre? Potrebbero essere le domande riflessive che si celano dietro un’altra rappresentazione video della Wearing, in cui una madre percuote e abbraccia la figlia in un turbinio di emozioni e violenze fisiche che è difficile separare dall’amore che a tratti le dà. Forse è la linea di separazione tra male e bene, violenza e amore che oggi appare più che mai indefinibile e difficile da individuare, il messaggio di cui l’arte vuole farsi interprete e che come l’urlo di Munch non può essere più portato in scena agli occhi dello spettatore solo mediante la mera bellezza intuitiva.
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