Non c’è alcun dubbio che, per me, Gli innamoramenti di Javier Marías, sia un romanzo insopportabile.
La storia, nel romanzo, è narrata da María, una trentacinquenne che lavora presso una casa editrice di Madrid. María ogni mattina fa colazione in un bar, lo stesso nel quale fanno colazione Miguel e Luisa, una coppia bella, affiatata, allegra e felice. Qualche tempo dopo la prolungata assenza della coppia dalle colazioni al bar, la protagonista viene a sapere che Miguel è stato assassinato e María si ritroverà, in breve, a entrare in confidenza con Luisa, la vedova, sua coetanea. La storia, almeno, detta così, è intrigante, ma lo sviluppo vira in altri e molto più impegnativi territori.
Miguel, la vittima, ha un amico, Javier, un donnaiolo impenitente come se ne vedono solo nei romanzi ottocenteschi e in quelli di Fabio Volo. Per la verità non ho mai letto nulla di Fabio Volo, ma ho, chissà perché, la salda convinzione che le sue trame girino quasi sempre intorno a donnaioli impenitenti. Comunque, Miguel, prima di morire, aveva chiesto all’amico di promettergli che se gli fosse capitato qualcosa si sarebbe preso cura di sua moglie Luisa. Dopo un’estenuante discussione filosofica come se ne leggono solo nei romanzi dell’ottocento – in quelli di Fabio Volo non so – Javier accorda all’amico la promessa. Dopo la morte di Miguel, accoltellato da un parcheggiatore abusivo manco fosse un film di Alfonso Brescia con Mario Merola, Javier si prende effettivamente cura della moglie e dei figli. Nel frattempo María che, lo ricordo, è la voce narrante della storia, allaccia una relazione con Javier lo sciupafemmine. La loro però, Javier vuole che sia solo una storia di sesso – manco fosse il protagonista di un romanzo di Fabio Volo – María però ne soffre, perché si è innamorata di Javier mentre lui, e qui la cosa diventa proprio ottocentesca, è segretamente innamorato di Luisa, la vedova, nonché moglie del suo migliore amico, nel frattempo accompagnato all’altro mondo da un parcheggiatore abusivo napoletano. Vabbé, il parcheggiatore non è napoletano, ma potrebbe benissimo esserlo. Una sera María sente di nascosto una conversazione che gli farà capire molte cose sulla morte di Miguel, cose che non vi dirò, ovviamente.
La storia, come dicevo prima, è anche intrigante, ma quel che rende questo romanzo insopportabile, per me, sono tre cose.
La prima: la lentezza. La storia che vi ho raccontato si sarebbe potuta narrare in cinquanta pagine appena, mentre Marías ne impiega più di trecento; ma soprattutto lo svolgimento delle azioni è di una lentezza che lo rende paragonabile a tratti alla Ricerca del tempo perduto o a La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo, di Sterne. Solo per fare un esempio: a pagina 199 Javier chiama María e le chiede di incontrarsi perché vuole parlarle. Per percorrere il tragitto (a piedi) che María compie dalla casa editrice dove lavora a casa di Javier, passano ben diciannove pagine, diciannove pagine di ragionamenti, dubbi, opinioni filosofiche e citazioni letterarie; e la loro conversazione comincia a pagina 218 e finisce a pagina 273!
La seconda: la verbosità. Il romanzo è appesantito dalle digressioni e dai lunghissimi dialoghi dei protagonisti, che – sebbene sia questo lo scopo del romanzo – riflettono sui meccanismi dell’amore e dell’innamoramento. Il problema è che sebbene Marías provi a fare come Proust, a psicoanalizzare i sentimenti, non mi sembra ci riesca, quindi il risultato di queste estenuanti conversazioni è solo la pesantezza. La verbosità, appunto.
La terza: l’irrealtà. Come nei film di Woody Allen i protagonisti sono tutti belli, colti, benestanti – siamo pur sempre nella Spagna del 2011, con la disoccupazione a circa il 25%, e quella giovanile al 50%, altro che Italia! – una versione europea dei WASP; mentre i cattivi sono brutti sporchi e cattivi. Ma soprattutto i protagonisti, giovani fra i trenta e i quarant’anni, s’intrattengono in spericolati monologhi sul senso delle cose, citano, come fa Javier, Balzac che, ovviamente, hanno letto in francese!
Ultima considerazione, da addebitarsi, però, alla casa editrice. A pag. 116, come vedete nella foto, si legge: «Se sarebbe stato ridicolo che anche i miei passi …». E stiamo parlando dell’Einaudi.
Nessun commento:
Posta un commento