27 marzo 2014

Il “veleno” e la donna nella letteratura scandinava: Tove Ditlevsen

Tove Ditlevsen

La chiamano letteratura delle donne, che significa, forse, "per" le donne e viene attentamente distaccata da quella più regolare fatta dagli uomini rivolta a tutti gli uomini. Quella delle donne no, non può che puntare alle donne per le vicende prettamente femminili come i sussulti emotivi che le animano. Letteratura da donna per le donne. Oppure no. Perché se con il sostantivo “uomini” si intende globalmente tutti gli esseri umani di ambo i sessi, per le donne è diverso sempre, anche nella lingua, eppure il sentimento che si agita nell'animo di una donna è il primigenio soffio di una forza naturale che non può che scegliere la vita, la passione, anche a costo di assoggettarsi allo spiacevole qualificazione di “femminuccia”. Siamo tutti, intendo uomini e donne, siamo tutti donne nei sentimenti, al di là della facciata mascolina alla quale oggi ci abituano modelli di sessi vincenti e forti, la debole forza femminile è tacita in ogni essere umano. La chiamano letteratura da donna, per le donne ma forse questo è il solo modo di definire una letteratura schiava del mito del superamento del maschilismo.



Non può che essere descritto come autobiografico quel fenomeno letterario che a metà degli anni ’90 si impone sulla scena artistica scandinava: la letteratura scritta da donne in forma di autobiografia ma al contempo come letteratura del sentimento aperta a tutti. Annegret Heitmann, profonda conoscitrice e studiosa della letteratura nord europea, parla a riguardo di un periodo di “democratizzazione del Parnaso” come democratizzazione della società. Accanto a Tania Blixen il nome della scrittrice maledetta Tove Ditlevsen sta a capo di questa trasformazione tutta femminile della letteratura del nord. La scrittura è la porta di accesso mediante la quale la Ditlevsen può descrivere e dare voce, o meglio parola scritta, ai demoni reali che hanno suggellato un percorso biografico tinto di amore e divorzi – ben tre – dipendenza dalla droga e suicidio come soluzione finale. La Ditlevsen raccoglie l’amore del pubblico perché è ad esso profondamente legato. Nata e cresciuta in una famiglia proletaria, diventa scrittrice narrando la sua condizione di donna del popolo dal basso. Anche questa è una democratizzazione della scrittura, ove ognuno può scrivere, indipendentemente dalla propria storia biografica e di appartenenza sociale. Donna, proletaria e dalla vita allo sbando, in preda a psicosi e a desideri di morte, Tove Ditlevsen incarna la figura femminile del poeta maledetto à la Baudelaire o D’Annunzio, con alcune differenze: figlia del popolo non gioca a fare la proletaria, ma lo è, donna del popolo, ma soprattutto donna. Scrive la sua storia che diventa letteratura, o anche, la letteratura diventa la sua storia, la sua vita, come si è meravigliosamente espressa Annegret Heitmann. Essere donna ed essere proletaria rappresentano i temi di forza ma anche di svolta della letteratura di questa scrittrice, la cui lotta involve sia il conflitto sociale che quello di sesso. Il femminismo come lotta di classe, sul piano del genere sessuale, impone di considerare l’opera della Ditlevsen da un punto di vista politico. Anne Brigitte Richard e Karen Syberg sottolineano l’antifemminismo dell’opera della Ditlevsen in cui la scrittrice mette in luce la problematica del suo sentire come donna, senza però districarsi dalla moltitudine di impasse, confluendo così in un tunnel senza via di uscita se non quella della rassegnazione e della propria distruzione. Più che di femminismo per le donne, sembra che la critica politica legga nell’opera della scrittrice una involuzione del femminismo come contrario ai suoi stessi valori. È in questo nodo che la chiave di volta per la comprensione della letteratura della Ditlevsen si compone non solo di puro femminismo sentimentale, bensì anche della psicosi della donna. La realtà raccontata dalla scrittrice nordica è frutto della sua biografia, ma rappresenta altresì una verità che esiste perché descritta. Non ci troviamo dinanzi al discorso favolistico della finzione nell'opera d'arte, tutt'al più si tratta della realtà descritta con l’arte, ma esistente e sentita come descritta dall’autrice dei ricordi. Il nesso tra realtà e arte si fa più forte, o anche è difficile da scorgere, quando la Ditlevsen menziona nei suoi racconti nomi di persone, indirizzi e altre precise configurazioni di luoghi e personaggi realmente esistiti nella sua storia biografica. L'indirizzo della casa nella quale la piccola Ditlevsen è cresciuta appare a chiare lettere nei suoi racconti, così come uno specifico resoconto della sua malattia alle orecchie, di cui il suo medico Falbe-Hanen offrirà persino un commento scritto. È realismo femminista o semplicemente verità (femminile) nell'arte?

Realtà e chissà se vi è un pizzico di finzione, biografia sparsa anche in forma di altre opere nel romanzo Gift, uno dei più emblematici esempi di arte come forma di letteratura del reale. In primis il titolo ben esprime lo stato emotivo e fattivo nel quale la Ditlevsen si trova. In danese “Gift” significa sia sposata che avvelenata, chiaro gioco linguistico dello stato avvelenato in cui la donna sposata è costretta dalla vita a due. Almeno è questo il senso che si deduce dal romanzo della Ditlevsen. La realtà, si scriveva sopra, entra nel romanzo e ne realizza un resoconto non fantastico, bensì realistico, della biografia della scrittrice. Gli eterni tre è una poesia della scrittrice i cui primi versi sono riportati nel romanzo Gift dove il processo di nascita della poesia è documentato dalla scrittrice stessa mediante il medium artistico, ovvero nelle pagine del romanzo autobiografico. Arte nell´arte, superamento dell’elemento fantastico ripudio del simbolismo artistico tout-court narrazione della realtà dei fatti, della vita vera, questa la letteratura à la Ditlevsen.

Gli eterni tre
Ci sono due uomini nel mondo, che costantemente
m'incrociano la strada, l'uno è colui che amo,
l'altro è colui che mi ama.

L'uno è un sogno notturno
e abita nella mia mente buia,
l'altro sta alla porta del mio cuore
ed io mai gli apro.

L'uno mi ha dato un primaverile soffio di felicità
che subito dispariva,
l'altro mi ha dato tutta la sua vita e
non è mai stato ripagato di un'ora.

L'uno freme del canto del sangue
dove l'amore è puro e libero,
l'altro ha a che fare con il triste giorno
in cui affogano i sogni.

Ogni donna si trova tra questi due,
innamorata e amata e pura...

una volta ogni cent'anni può succedere
che essi si fondano in uno.
(Traduzione di Renzo Pavese)

Lo squilibrio sentimentale si accompagna all’incapacità di condurre una vita al di fuori della dimensione di scrittrice. Il romanzo della Ditlevsen è il mondo ovattato dal quale poter prendere congedo da una realtà da raccontare in forma di romanzo. I “ricordi” ditlevsiani sono ordinati come diapositive di un film che la scrittrice racconta con dovizia di particolari e con una chiarezza tale da essere risucchiati dalla trama. Dopo l’introduzione al primo fallimento sentimentale, seguono ulteriori vicende con uomini non sempre affascinanti, dai quali poter essere “avvelenata” – appunto Gift – nella duplice accezione: avvelenata perché sposata, avvelenata per l’uso di sostanze che Carl, terza figura maschile nel romanzo della Ditlevsen, le inietta in vena. L’esperienza del primo aborto nella realtà proibizionista del tempo, i via vai alla ricerca di un medico non obiettore o di metodi casalinghi per aborti fai da te, la Ditlevsen ripercorre i suoi drammi di donna comuni a tutte le donne del suo tempo, schiacciate dagli obblighi e dalle proibizioni, costrette ad essere donne senza libertà di poterlo essere davvero. Ma certe esperienze non possono essere vissute dall’uomo e dalla donna insieme. La nascita e la morte di un figlio passa solo attraverso il corpo della donna, la nascita come la sua morte. Per questo solo una donna può trasformare in parole la vita e la morte di un figlio, il destino dell’uomo e della donna. Per questo il romanzo della Ditlevsen è pregno di una sacralità religiosa, come racconti di una moderna madonna stretta tra il rimpianto e la gioia di essere donna e di dovere essere madre.

A ben vedere quello della Ditlevsen può essere definito la versione più nordica e per adulti del romanzo berlinese di Christiane F. Noi, i ragazzi dello zoo di Berlino. Come la Ditlevsen, Christiane F. trascina il lettore con forza dall’altra parte della realtà conosciuta, all’ombra di esistenze normali, nella dissoluzione della quotidianità immaginata. Gli adulti rappresentati nei romanzi della Ditlevsen a cavallo della seconda guerra mondiale, sono i bambini “avvelenati” dalle droghe della Germania postbellica divisa dal muro. Il male, la dissoluzione di vite di donne raggiunge l’apice della drammaticità perché raccontate da donne. Come nella storia della Germania divisa, quella raccontata anni prima più al nord di Berlino, è la vicenda storica di soldati tedeschi che Tove incontra nella notte natalizia quando è alla ricerca di un medico che la aiuti ad abortire.

Dramma nel dramma: la guerra, i soldati stanchi nella notte sui tram, i coprifuochi e gli amici che di lì a poco moriranno. La vita proletaria e la comparsa della guerra consacrano i dolori che accomunano i destini di uomini e donne come Tove Ditlevesen, gli stessi brucianti sentimenti sentiti da uomini e donne.

L’aborto, la sfrenata lotta per la libertà, il desiderio di essere amata, curata e, forse, la richiesta di essere salvata, resta il dolore esclusivo della donna e che, in letteratura, solo Tove Ditlevsen poteva raccontare.


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