25 marzo 2014

Ipotesi filologica su un’epigrafe di Brancati


La donna sarebbe più affascinante se si potesse cadere fra le
sue braccia senza cadere nelle sue mani.
Ambrose Bierce

Quand’ero giovane davvero – e il termine “giovane” non era ancora diventato un eufemismo politicamente corretto di “fallito” – in casa mia non c’erano molti libri. Avrei tanto voluto, ma la mia non è mai stata una di quelle famiglie nelle quali padri e figli si scambiano commenti sull’ultimo volume della Recherche letto. Proprio no.

Il bell’Antonio

Però i miei hanno sempre posseduto, e posseggono tuttora, una poderosa collezione di romanzi che ha sempre attratto la mia curiosità adolescenziale. È una collezione di volumi che indossano la divisa d’ordinanza del prestigio, ottenuta sfoggiando una rilegatura di moderato fasto: pelle bordeaux, scritte d’oro e pesanti cornici classicheggianti. La realizzarono a metà degli anni settanta Bompiani e Fabbri e, davvero, non ho mai capito cosa ci facesse a casa mia. Nabokov, Malraux, Céline, Gide, Steinbeck, Moravia, Parise: roba seria, insomma. 

La sto prendendo larga, lo so, ora arrivo al punto. Il punto è che mi attardavo spesso fra quei volumi sniffando qualche pagina, qua e là. Questo accadeva un po’ di anni fa, quando ero giovane, giovane davvero, e per quel marcato campanilismo tipico dei meridionali, mi attraevano soprattutto gli scrittori siciliani. Uno di questi volumi era Il bell’Antonio, di Brancati. A pagina 105 di quell’edizione del 1975, in epigrafe al quinto capitolo, sotto le citazioni di Dante e di Francesco Lanza, appare questo:
«Ma come, della donna? …»
«… maschile».

«E dell’uomo? …»

«… femminile».

«Com’è curioso questo vostro dialetto!»
Non mi ci è voluto molto a capire a cosa si riferisse – se si è siciliani non è affatto difficile. Brancati si riferiva ai nomi degli organi sessuali maschile e femminile. Se in italiano il membro maschile può essere chiamato “pene”, “fallo”, “uccello”, “pisello” o più volgarmente “cazzo”, in siciliano, com’è universalmente noto, si dice “minchia”, cioè un sostantivo femminile. Viceversa l’organo sessuale femminile, che in italiano può essere chiamato “vagina”, “passera” o più grossolanamente “figa” e “fica”, a seconda della latitudine geografica, in siciliano diventa “sticchio” o “pacchio”. Cioè un sostantivo maschile.

Non credo ci sia bisogno di specificare che non sono un filologo, e a dirla tutta sono anche un mediocre conoscitore della grammatica italiana, ma a questo punto vorrei lanciarmi. Vorrei proporre una mia interpretazione di questa apparentemente illogica inversione. Innanzitutto bisogna addentrarsi nei più remoti anditi della cultura reazionaria siciliana, insomma della cultura popolare.

È assolutamente noto il ruolo del masculo dominante della tradizione sicula, così com’è ben noto il ruolo della donna: inutile ornamento e al contempo oggetto del desiderio, capace di scatenare i violenti turbamenti maschili (Gesualdo Bufalino ha scritto che un tempo – quando era giovane lui – il termine mafioso era adoperato per descrivere l’alterigia di certe ragazze).

Qual è, nell’immaginario del maschio dominante siciliano, la sola debolezza accettata? la minchia. Cioè l’incapacità di gestire la propria componente erotica; l’incapacità di ostentare quell’irremovibilità, quella caparbietà e spirito di sacrificio che l’uomo forte del Sud ha, o mostra di avere, in tutte le circostanze della sua vita. Tranne che su una: quella erotica, esclusivamente incarnata dalla donna. Quindi l’attributo maschile diventa femminile (la minchia) perché per l’uomo non è fonte di virtù, cioè di forza, ma di fragilità, di debolezza. Viceversa la donna, l’essere fragile per eccellenza trova nel suo attributo, e in quel che rappresenta, il suo punto di forza per dominare l’uomo, e quindi il suo nome diventa maschile (lo sticchio, il pacchio). E così l’organo che rappresenta la virilità è anche simbolo di debolezza, mentre quello che rappresenta la femminilità diviene simbolo di forza e dominio.

Lo so, non è una teoria molto erudita né complessa, ma è tutto quel che riesco a fare. Spero però di non aver alimentato i soliti luoghi comuni sul machismo siciliano; in fondo io mi riferivo a una tradizione antica, che ha appena lasciato traccia nel linguaggio e spero nulla più. Una cultura che avrà forse accarezzato e in alcuni casi sedotto la generazione dei miei genitori, ma che certamente non mi riguarda, sebbene abbia avuto anche io un’infanzia «fra i fichi d’india e lo zolfo». Sono giovane, io, giovane davvero.

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