Pensiamo alla gloria, che significato si da oggi a questa parola? Si pensa alla gloria e ci perdiamo tra immagini di politici potenti, personaggi famosi e ingloriosi e forse a qualche partecipante del “Big Brother”, dimenticando, ingloriosamente, che la luce della gloria si irradia dai corpi e dalle menti capaci di grandi azioni, di grandi opere, di cose grandi.
L’etimo della parola ricorda che nonostante l’annichilimento della nostra storia occidentale, testimone di grande cultura, la gloria non spetta ai piccoli uomini, ma alle grandi gesta di grandi personaggi: non serve guadagnare milioni o comparire sui giornali, glorioso è chi nella gloria risplende. Gloria, infatti, contiene la radice indoeuropea – Klu il cui significato è udire, farsi sentire e in senso figurato essere famoso. Gloria, oltre ad avere il significato di famoso e riconosciuto, nella storia dell’arte suole indicare la luce con la quale in pittura e in scultura si raffigurano santi e personaggi celesti, come gli angeli. Non a caso l’aureola dorata che cinge il capo delle figure celesti è chiamata comunemente gloria. L’etimologia e i significati della parola indicano da subito una forte relazione con la luce, con l’apparire che illumina, con la luminosità che si staglia su un piano più scuro. La gloria è da subito associata, dunque, all’ immagine della luce, che come la verità che acceca non può che derivare dall’animo puro, dalle persone grandi.
Gloria è stato il tema della scorsa edizione del Festival Filosofia tenutosi, come ogni anno, a Modena, Carpi e Sassuolo. Come da tradizione le Lectiones Magistrales hanno avuto luogo nelle “Agorà” simbolo del raccoglimento italiano, piazze gloriose come Piazza Grande di Modena, la magica piazza Martiri di Carpi e piazzale Avanzini di Sassuolo.
“Glorioso” è stato anche il tempo, ironizza un professore prima della sua Lectio Magistralis, ed è così, la luce e le belle giornate hanno permesso di godere a pieno della bellezza delle piazze italiane che per tre giorni si sono aperte al vasto pubblico di amanti della filosofia.
“Gloria” è il tema di partenza dal quale sono scaturiti pensieri, riflessioni e percorsi di discorsi più disparati. Dalla pesante tradizione del cristianesimo sino alle moderne tecniche di comunicazione e ai suoi pericoli sulla vera gloria. Dal tema “gloria” i professori hanno sapientemente intessuto una tela fitta di considerazioni che non potevano che sfociare in una analisi dell’uomo e del mondo contemporaneo. Alla gloria e la sua luce, alla vana gloria e la sua falsa luce, all’apparire a tutti i costi per un “quarto d’ora celebrativo” su Facebook come delle vere star – di luce flebilissima – si alterna la forza dell’aureola celebrativa dei grandi animi, al giusto mezzo, all’aspirazione dell’equilibrio che smorza e distrugge la vana gloria del protagonismo vanitoso e fanfarone, della “messa in scena di sé”, come recita il titolo della Lectio Magistralis del professore Gernont Böhme di Darmstadt. L’esserci declinato secondo le modalità dei nuovi mezzi di comunicazione di massa è l’altro punto sul quale riflettere quando si parla di gloria ai tempi di twitter e facebook. Quanto e in che modo l’uomo è socialmente mutato e quanto conta la gloria, o meglio, di quale gloria si può parlare oggi?
Storicamente la gloria attraversa stagioni diverse nelle diverse lingue. In latino, ad esempio, il termine veniva utilizzato esclusivamente in accezione negativa, si parlava cioè di “vana gloria”. Oggi la gloria viene associata, in modo errato, alla fama di personaggi noti, conosciuti dai più. L’etimo di “fama” rimanda a “fèra”, parola latina che significa animale, bestia feroce, belva, alimentando anche il termine di aggettivi come selvaggio, violento, indomito e crudele. Come la fame di chi cerca fama, la desidera in modo violento, immediato e selvaggio, così questa tipologia di uomo è più simile a una “fèra” che non sa attendere né sperare e credere, che a un uomo glorioso. Fama-fame-famoso, come tacere la comune radice della parola? In che modo la gloria luminosa e pura si interseca con l’animalità della fama? È un discorso, questo, che non può prescindere dal contesto storico e culturale contemporaneo. La fama a differenza della gloria non abbisogna di una elevazione spirituale, di una condizione d’animo che accompagnata dalla giusta educazione prepara l’uomo alle grandi gesta, ad azioni gloriose. La fama è più brutalmente – qui emerge la comunanza con le caratteristiche della “fèra” – l’immediato, la notorietà hic et nunc e non conseguenza di azioni gloriose che solo da una interiorità eccelsa può sfociare. La gloria in comune con la fama presenta il ruolo decisivo rivestito dall’altro. Senza l’altro, la figura che non siamo noi, non vi può essere riconoscimento alcuno – sia esso ai fini del glorioso che del famoso – perché in questo gioco dell’ego l’individuo non può autocelebrarsi ed autoglorificarsi, questo è compito di chi sta fuori, di chi non siamo noi. Inoltre la fama come la gloria induce a immaginare il riconoscimento da parte degli parte di individui, dalla massa o heideggerianamente detto dall’uomo medio, dal “Man”. Sartre avrebbe parlato qui dello sguardo dell’altro, di quello che noi siamo in quanto immagine di noi che proviene, come riflessa in uno specchio, dall’altro e che contribuisce a costruire una immagine di sé mediante il riconoscimento. La lingua italiana ci corre in soccorso: il verbo riconoscere, per lo più usato per personaggi noti o già conosciuti, presenta il prefisso “ri” conferendo al verbo il senso di “conoscere nuovamente”, “ripetere una conoscenza”. “Riconoscere” è qui usato come conoscere una seconda volta. La fama del personaggio famoso non è necessariamente legata alla conoscenza dell’individuo, tutt’altro. La fama consiste nell’ammirazione del corpo della persona che si fa vedere e viene riconosciuta. La gloria è altro.
Il problema della messa in scena di sé, i filosofi oggi
Oggi sono i filosofi stessi a doversi porre nella loro fisicità piegandosi alle moderne strategie di marketing alimentando miti di personaggi a suon di scandali e gossip, senza avere la garanzia che le copie vendute vengano realmente lette. Il contenuto del pensiero subisce un avvilimento mentre, per forza inversa, la preminenza della fisicità, della curiosità arida e priva di fini gloriosi, si impone. Non si può essere oggi, o meglio esistere, filosofi se non si è annoverati tra le voci di Wikipedia, se non si possiede una home page, sottolinea Gernont Böhme. Il filosofo che mette in scena se stesso sintetizzando l’intervento del Böhme, non è così diverso dall’attore o starlette del momento perché più che essere riconosciuto per il suo pensiero deve in primis essere riconosciuto nella sua persona. Causa di una siffatta preminenza del riconoscimento del corpo per il riconoscimento di sé, è in filosofia lo svilimento del pensiero filosofico che andrebbe letto, studiato e riflettuto per poter essere compreso. Non è detto, infatti, che i libri del filosofo à la page, del filosofo del momento, vengano lette e interpretate. Lo scenario presentato è il caso del filosofo costretto a mettere in scena se stesso, ma dov’è la gloria? Possiamo provare a descrivere la gloria privandola delle caratteristiche appartenenti alla fama, proseguendo a ritroso un percorso storico che approda al nichilismo odierno le cui origi si chiudono nel mito e nella storia del cristianesimo.
Miti di oggi, gloria di ieri
A questo proposito anche la lezione di Carlo Galli su “Elites” è pregnante. Attraverso un excursus storico Carlo Galli ripercorre il peso della gloria nel lontano passato della città di Atene, quando la gloria della città greca serviva a legittimare la stessa, a farla ricordare nel tempo. Più avanti la gloria, intesa qui come vana gloria, viene riconosciuta come la causa di conflitti scaturiti dal valore che ognuno crede di avere e che vuole che sia da tutti riconosciuto. A ridimensionare questo stato di diritto naturale alla gloria, è lo Stato, organo predisposto a dispensare onorificenze, e dunque gloria, agli uomini. La nascita dello Stato coincide con la nascita delle elites, la cui gloria si fonda sul piano politico-giuridico. Inizia un periodo di gloria per l’Italia: la gloria di Mazzini, la gloria di Garibaldi, la gloria di Cavour, esempi lampanti di un connubio forte tra il potere politico delle elites e la gloria. Impossibile da raggiungere la gloria delle elites non può aprirsi alle classi socialmente inferiori, le porte del potere, come quelle della gloria, sono chiuse per gli appartenenti al popolo. Questo scenario è legato ad una fase in cui le elites politiche ancora non erano state scardinate nelle loro fondamenta, un processo, questo, che avviene con il neoliberismo e con l’ascesa della preminenza del consumismo e del potere massmediatico. Seconda fase, ancora in atto nella nostra epoca, è quella della gloria fai da te, conclude il Galli. Lodarsi di glorie senza aver fatto nulla, porsi all’attenzione di tutti autocelebrando una gloria inesistente tramite Facebook è oggi non solo possibile, ma must del nichilismo moderno. Questo tipo di individuo risalta, però, anche per la mancanza di ambizione e pericolosità in ambito politico, terreno al quale non appartiene e dunque fuori dal contesto politico. Come a dire: “inglorioso che twitta, non morde”.
Eppure è proprio il significato che si conferisce oggi alla gloria a non poter prescindere dal mondo massmediatico che impone un significato nuovo del termine, o almeno che ne ha cambiato il senso, il punto di svolta del tema sulla gloria che dobbiamo considerare. In questa direzione si incanala anche la lezione magistrale di Milad Doueihi, docente di umanesimo digitale presso L’università Parigi I. Doueihi affronta il tema dell’etica nel tempo dei social network, di “web reputation”. Non è possibile oggi affrancare un discorso sull’etica dal mondo massmediatico nel quale ognuno di noi oramai appartiene. È importante poter e saper gestire il capitale umano sul web, in quanto soggetto ad una visibilità che richiede delle norme come in passato la legge ha sempre regolato i rapporti su altro piano. L’informatica non può più essere considerata una tecnica, un mero fenomeno ma va compresa e eticamente studiata come forma parallela al reale, nella quale ogni utente mettendosi in forma, nella sua rintracciabilità, rende visibile anche la sua reputazione.
Quello dei social media e della ingloriosa gloria massmediatica sembra essere l’approdo di tutti le riflessioni delle lezioni magistrali. Zygmunt Bauman spiega la fortuna di Mark Zuckerberg, il quale ha saputo ben sfruttare la necessità di autocelebrazione di volti non noti, capaci di attirare, nel bene e nel male, commenti, like e feedback della massa. In questo contesto sono nate le figure dei mediatori culturali, sorta di head hunters della rete, capaci di captare utenti famosi nella rete ma sconosciuti nella realtà. Il merito di queste celebrità? Non aver fatto nulla. Si può ancora parlare di gloria?
Gloria è una parola antica. La lezione dei saggi
Si può parlare di gloria, di quella gloria primigenia, dal sapore classico, se tornando indietro alle lezioni dei classici ci rifacciamo all’Etica Nicomachea di Aristotele, tema della lezione di un classico presentato da Enrico Berti. Anche questa Lectio Magistralis sviluppa due argomenti principi: la luminosità della gloria, e dunque il tema della luce, e l’importanza dell’altro nel riconoscimento della gloria e dell’uomo glorioso. Nel ripercorrere il tema del capitolo IV di Aristotele, Enrico Berti si sofferma sulle virtù che incorniciano la gloria, tra queste spicca la fierezza: fiero è l’uomo che ha in sé grandi doti e virtù e che li ha in rapporto con “grandi cose (peri megala)”, di qui si parla di “Megalopsychia”. Enrico Berti traduce questo termine con “grandezza d’animo”, distaccandosi dalla classica tradizione di “fierezza”. Fiero è l’uomo grande dentro di sé e che non può compiere altro se non grandi azioni. Ben si comprende che la differenza tra “grandezza d’animo” e “fierezza” è molto sottile, trattandosi in ambo le traduzioni di azioni e di uomini aventi disposizione al “grande”. Spesso tradotto con “magnanimità”, la Megalopsychia di Aristotele non indica, però, la mera generosità bensì anche una grandezza di spirito intesa come “dignità”, “pride” in inglese e “Hochsinnigkeit” in lingua tedesca. La fierezza sembra allora essere la virtù che completa quella della gloria, senza la fierezza la gloria non potrebbe emanare la sua indistinguibile luce. Fiero è colui che agisce con grandezza e nobiltà verso i nobili e i ricchi ma che all’occorrenza sa usare un atteggiamento misurato verso i più poveri. Da subito l’imperativo della misura e dell’equilibrio – cruciale nel testo di Aristotele – viene ad essere riconosciuta base imprescindibile della Megalopsychia. L’opera aristotelica è resa ancora più grande e attuale quando Enrico Berti cita la Divina Commedia dantesca e il passo in cui Dante fa parlare Virgilio sull’etica, testimoniando la conoscenza dell’importante testo. Oggi, invece, continua il Berti, a riprendere l’Etica Nicomachea è Savater, il quale ha scritto Etica per un figlio, una imitazione del testo aristotelico.
L’uomo fanfarone, il pusillanime e l’ingloriosa gloria
Come in due rovesci della stessa medaglia, Aristotele pone agli estremi della Megalopsychia due tipi umani difettivi, che non è difficile riscontrare anche nell’odierna farsa della gloria e dei miti moderni: il fanfarone e il pusillanime, nel cui mezzo si potrebbe posizionare il temperante, ossia colui che è degno di piccole cose e con queste si misura. Anche quest’ultima tipologia umana è difettiva perché la fierezza richiede un approccio con le grandi cose e non la misurazione con le piccole. Fanfarone è, invece, colui che si crede degno di grandi cose ma non lo è, mentre, all’opposto della fierezza e peccato ancora più grave è la pusillanimeria, ossia non riconoscersi grande e, a torto, privarsi di lode e di gloria sottovalutandosi. Il pusillanime si stima meno di quanto dovrebbe mentre il fanfarone più di quanto merita. L’attualità dell’Etica abbaglia gli ascoltatori quando il Berti si sofferma sulle doti dell’uomo fiero: egli non ama farsi aiutare, ma aiuta volentieri, è fiero quando gli ricordano il bene fatto, ferito quando gli rammendano i favori subiti. Ancora: non indispettisce nessuno ma con la massa usa l’arma dell’ironia. Quale massa viene qui intesa? La massa “hoi polloi”, ossia gli uomini che stimano i falsi melopsichoi, alimentando l’immagine di falsi fieri e indegni di lode e stima. Il distacco dalla massa si compie anche quando al pettegolezzo e alla decantazione di sé l’uomo grande d’animo preferisce il silenzio. Al glorioso e fiero uomo appartengono le azioni grandi, che non possono che risultare da un animo buono, tutti i suoi difetti concorrono a realizzare una tipologia effimera e non veritiera dell’uomo fiero, di grande animo. L’ammirazione suscitata oggi sui social networks, in vario modo, coincide con la gloria effimera, fasulla della massa che non sa riconoscere né rispettare la vera gloria dell’uomo grande. Un commento sarcastico o del tutto inutile su Facebook basta ad attirare molti like, con la relativa sovraesposizione di personaggi indubbi e di contenuti nulli. È questa gloria? sì, o meglio, è la vana gloria ai tempi dei social. Sulla vana gloria ritorna il Böhme affrontando le tre caratteristiche del riconoscimento, stavolta, in ambito accademico: onore, notorietà e importanza servono oggi a costruire una salda figura di onore in ambito accademico. “L’ingloriosa gloria” è il sottotitolo aggiustato in extremis dal professore Jean-Luc Nancy, che dedica la sua Lectio Magistralis ai “gloriosamente caduti senza nome”, ai militi ignoti. Anche in questa lezione il tema della luce torna ad imporsi: l’essenza della gloria, spiega il professore francese, è lo splendore; se la distanza è ravvicinata la luce acceca, se è maggiore la luce è simile allo splendore delle stelle. Tornando all’attualità e al suo significato di gloria, Nancy cita il titolo di una serie televisiva molto nota e il cui nome muta a seconda del paese. Si tratta di Beautiful da noi in Italia, in Francia nota con il nome di Amour, Gloire et beauté, titolo che invita a riflettere sulla gloria e sulla percezione di questa virtù oggi. Come usare questa parola? E che effetto suscita vederla in un contesto ove si accompagna con virtù solo relativamente alte? La gloria autentica a differenza della gloria odierna, non arriva dalle divinità ma dagli uomini stessi, e solo in virtù di questo salto contro gli dei che la gloria perde il suo sfavillio, il suo significato. Quella degli uomini data agli uomini è celebrità e non gloria, sottolinea Nancy, la gloria si ritrae, sfugge e non appartiene a nessuno, non ha passato né futuro, ma solo presente.
Lunga è la strada, ignoto il percorso: da padre in figlio, una metafora odierna
Si conclude questa carrellata di alcuni interventi al festival filosofia, con un intervento intenso, tanto audace e passionale da riscuotere un lungo applauso dalla folla che lo ascolta muta, attenta. Massimo Recalcati si presenta al suo pubblico con un tema di grande attualità, presentato non senza un coinvolgimento personale, un tagliente pathos di padre e di figlio. Ed è proprio la vicenda di un padre e di un figlio che lo psicanalista di stampo lacaniano usa come incipit della sua lezione magistrale: Il modello paterno. Padri e figli. Il romanzo citato in partenza da Recalcati è The Road dello scrittore statunitense Cormac McCarthy. Un padre e un figlio nel mezzo di un mondo raso al suolo forse a causa di una guerra atomica, ma questo non viene spiegato nel romanzo che registra un aspetto spettrale, dove gli uomini rimasti invita o si uccidono, come la madre del bambino, oppure lottano per la sopravvivenza sacrificando alla loro fame simili meno forti. Tutto è grigio e buio, paura e uggiosità, il tempo è scuro e freddo come i sentimenti degli impauriti sopravvissuti, ma non del bambino, unica figura ancora capace di luce, di sentimenti infantilmente buoni, sereni, macchiati solo a tratti dallo spavento che provoca pianti e lacrime. Davanti alle incertezze del padre è il figlio ad accudire la sua presenza e dargli forza, egli è ancora padre, o almeno quel che ne resta, perché il figlio ha preso il suo posto, è il figlio a dare la forza e la speranza che serve a continuare un cammino incerto, impossibile ma certamente inevitabile. In mancanza di un Dio e di un padre, il figlio in tutta la sua ingenuità getta avanti lo sguardo di chi non conosce ma che sa che il bene del padre, di suo padre ha bisogno ora di lui, della fiducia del figlio.
Questa la situazione di un momento storico senza pari: dopo la morte di Dio scompare anche la figura del padre. Chi sono i padri oggi? Come riescono a far fronte a questo ruolo? Quali sono i limiti della figura paterna? Le risposte sono tutte negative. Il padre dei padri di ieri, hanno costruito una identità fondata sulla preminenza mediante l’uso della violenza. Il “padre padrone” dei tempi andati ha poi lasciato spazio ad un padre meno violento, più accondiscendente ma sempre meno aiutato da una situazione storica ed economica che ne possa agevolare la dolcezza. Tutto in forse, tutto in difficoltà, tutto senza sicurezza: al modus vivendi della società odierna non sfugge la figura paterna che perde di stabilità, una immagine di uomo che cerca essa stessa un equilibrio che nessun Dio può oramai dargli, compito che sembra essere dei figli di questi padri. Non si può essere padri senza essere stati figli e non si può essere forti senza che un figlio illumini la via, quella giusta, quella che nella perdizione moderna va fatta, deve essere seguita. La mancanza di legge è l’unica legge possibile oggi, afferma Recalcati, e da questo grande vuoto la presenza del figlio che prende la mano al padre e di un padre che non usa con violenza la sua mano paterna ma con delicatezza accompagna il respiro del figlio – come nel romanzo di Mc Carthy – si apre la salvezza, la luce sul buio. Al mondo in bianco e nero, senza lucciole dirà Pasolini, della società capitalista la salvezza non può che essere il figlio, il padre futuro.
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