Quando Iosif Brodskij lascia l'Unione Sovietica nel giugno del 1972, fuggendo da una censura nei suoi confronti sempre più opprimente, opta per un breve soggiorno in Europa, precisamente a Vienna, dove grazie alla complicità di W. H. Auden riesce ad ottenere un posto presso la University of Michigan. Appena cinque mesi dopo il suo approdo negli States il giovane scrittore si trova nuovamente in Europa, stavolta sulle sponde dell'Adriatico, attratto da qualche reminiscenza di letture di Henry de Régnier e da una serie di dodici datate cartoline color seppia appartenenti alla nonna di una sua amante che ritraevano una città meravigliosa, avvolta da una densa atmosfera invernale, estremamente intrigante e vagamente somigliante alla sua San Pietroburgo. Quel luogo era Venezia, e nel freddo Natale del 1972, mettendo piede nella città che più di tutte amerà, il visitatore ricorda con un tono enigmatico che «molte lune fa il dollaro era a quota 870 e io ero a quota 32. Il globo era anch'esso più leggero – due miliardi di anime in meno – e il bar della Stazione, in quella gelida sera di dicembre, era deserto». A dispetto del traumatico primo impatto con la città lagunare Brodskij vi si recherà con una certa assiduità nel corso dei successivi diciassette anni; e proprio nel 1989, due anni dopo l'assegnazione del Nobel per la Letteratura all'autore russo, il Consorzio Venezia Nuova commissiona la stesura di un'opera in qualche modo celebrativa e definitiva sulla Serenissima.
Se è possibile una poetica dei luoghi Fondamenta degli Incurabili ne rappresenta senza alcun dubbio il manifesto: il nome dell'opera stessa deriva da un luogo, l'ex Ospedale degli Incurabili, struttura eretta nella seconda metà del XVI secolo e attualmente sede dell'Accademia delle Belle Arti. L'impossibilità di descrivere la magnificenza di Venezia consiste nel paradosso della città sull'acqua che, riflessa in essa, si sdoppia e assicura in tal modo non solo la sua immanenza nel tempo e nello spazio, ma si erge anche a eterno e inarrivabile ideale di bellezza. E in effetti nelle poco più di cento pagine del testo esistono solo due veri protagonisti, contemporaneamente portatori e datori di senso: si tratta in primo luogo ovviamente dell'acqua, filtrata a sua volta dalla percezione sensoriale e dell'occhio in particolare, che è a sua volta il secondo elemento. L'assenza di una trama lineare lascia il posto a descrizioni visive e sentimentali più simili ad un flusso onirico che a una comune esperienza personale. Parafrasando giocosamente Feuerbach, difatti, si è ciò che si guarda; secondo Brodskij l'occhio veicola la nostra percezione estetica, come spiegato perfettamente nel capitolo XLI:
«L'occhio è il più autonomo dei nostri organi. Lo è perché gli oggetti della sua attenzione si trovano inevitabilmente all'esterno. L'occhio non vede mai sé stesso, se non in uno specchio. [...] L'occhio continua a registrare la realtà anche quando non vi è ragione apparente per farlo, e in tutte le circostanze. [...] Questo spiega la predilezione dell'occhio per l'arte in generale, e per l'arte veneziana in particolare. Questo spiega l'appetito dell'occhio per la bellezza, e l'esistenza stessa della bellezza. Perché la bellezza è sollievo, dal momento che la bellezza è innocua, è sicura.»
Il visivo non è l'unica dimensione che influisce sul modo di percepire la città: l'odore di alghe ghiacciate e lo scrosciare delle campane la domenica mattina allargano gli orizzonti sensoriali, contribuendo a calare ulteriormente autore e lettore nella magia del luogo. Nonostante ciò la predominanza della vista sugli altri sensi è resa esplicita nel momento in cui Brodskij afferma perentoriamente che il Paradiso è puramente visivo e che l'occhio precede la penna: esso è dunque punto di partenza di ogni processo creativo e non ha nulla a che vedere con un mero esercizio voyeuristico. In queste preziose analisi sul predominio dei sensi, impregnate di nebbia, luce invernale e riflessioni personali, il poeta sottolinea inoltre la sua enorme necessità di solitudine; non a caso gli unici spunti ironici sono legati alle sporadiche comparse, dal disco inceppato di Olga Rudge a quel balordo di Dedalo, marito di una sua conoscente iscritto al PCI, la cui unica preoccupazione o occupazione pare sia la gestione del proprio conto in banca. A queste figure svuotate di senso che sembrano appartenere a una recondita memoria fa da contraltare la sontuosità del bello, la preminenza dell'estetica, la quale carpita dall'occhio è addirittura capace di trasformarsi in materia liquida:
«In questa città si può versare una lacrima in diverse occasioni. Posto che la bellezza sia una particolare distribuzione della luce, quella più congeniale alla retina, la lacrima è il modo con cui la retina – come la lacrima stessa – ammette la propria incapacità di trattenere la bellezza.»
Ed è esattamente la materia liquida par excellence, quell'acqua da cui Venezia è magicamente emersa, il fulcro dell'analisi di Brodskij. Penso, molto semplicemente, che l'acqua sia l'immagine del tempo premette l'autore poco prima di scrivere uno dei passaggi più densi ed evocativi del testo:
«Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo-alias-acqua abbia lasciato sulla terraferma, in qualsiasi parte del globo. [...] È come se lo spazio, consapevole – qui più che in qualsiasi altro luogo – della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l'unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza. Ed ecco perché l'acqua prende questa risposta, la torce, la ritorce, la percuote, la sbriciola, ma alla fine la porta pressoché intatta verso il largo, nell'Adriatico.»
Lo spazio assume una dimensione metafisica e applicando la proprietà atemporale della bellezza riesce ad annientare il tempo, il quale si ripresenta sotto forma di acqua e altro non può fare che riflettere l'immagine stessa del bello, ovvero Venezia. I princìpi di orizzontalità dell'acqua-tempo e di verticalità delle facciate-spazio, messi in relazione attraverso la luce, corrispondono a due assi cartesiani in questa dinamica di rappresentazione estetica. L'intero senso del discorso di Brodskij è chiarito nell'ultima, meravigliosa pagina del testo, destinata a rimanere nella storia della letteratura mondiale e a immortalare Venezia eternamente e nella sua eternità:
«Ripeto: acqua è uguale al tempo, e l'acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d'acqua, serviamo alla bellezza allo stesso modo. Toccando l'acqua, questa città migliora l'aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell'universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l'eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all'uomo. Lo stesso vale per l'amore, perché anche l'amore è superiore, anch'esso è più grande di chi ama.»
L'ultimo viaggio di Brodskij sarà proprio sulle sponde della laguna considerata l'impossibilità di un ritorno della salma in una patria dalla quale era stato esiliato: secondo le disposizioni della moglie viene scelto il cimitero San Michele, ove riposano tra gli altri Ezra Pound e Igor Stravinskij. L'amore reciproco tra il poeta e quel luogo che ha così tanto influito sul suo pensiero può però essere descritto meglio da un breve e significativo aneddoto: il giorno della presentazione di Fondamenta degli Incurabili a Venezia Brodskij dimentica l'appuntamento, gli organizzatori avviano un'affannosa ricerca dappertutto in città. Lo troveranno dopo ore, accovacciato in un angolo, intento a dialogare con un vecchio ombrellaio, interrogandolo molto probabilmente sul significato dell'acqua.
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