20 maggio 2015

Le coincidenze nel terremoto del Nepal

Macerie delle torri Patan e Basantapur, a sinistra il Gaddhi Baithak

Il racconto di quei momenti che hanno sconvolto il Nepal e la mia vita

Avevo già trascorso nove giorni in Nepal visitando luoghi dal forte impatto emotivo, conoscendo persone meravigliose e lasciandomi travolgere dall'ancestrale fascino dei templi induisti e buddisti. Adesso mi restavano le ultime ore di vacanza prima di tornare in Italia col volo delle ore 17, in fondo il viaggio per me s'era mentalmente già concluso il giorno precedente, dopo aver visitato l'ultimo tempio della città e aver comprato alcuni souvenir. Per questa ragione quella mattina invece di attendere inutilmente in albergo decisi di dedicare una manciata d'ore ad un'ultima passeggiata per le vie del centro, il mio compagno di viaggio invece, avendo avuto la febbre, sarebbe rimasto in stanza sino a quando, verso le due del pomeriggio, non fossi tornato per andare in aeroporto.

Girare per le vie di Kathmandu è un po' come girare all'interno di un luogo caoticamente umano. Catturare i volti, i riti e lo stupore di mestieri ancora vitali per quelle latitudini, costituiva la ragione per cui volevo cogliere le ultime sensazioni di questo paese. Giravo senza una vera e propria meta, salvo il fatto che di lì ad un'ora avevo appuntamento con un'amica austriaca che, del tutto causalmente, si trovava in Nepal.
Poco prima dell'appuntamento ho avuto una piacevole chiacchierata con un commerciante tibetano che vendeva dei mandala fatti a mano. Avendo chiarito di non avere intenzione di effettuare acquisti abbiamo conversato senza secondi fini sui principi del buddismo, ma soprattutto sulla natura simbolica dei mandala. Poi giunta l'ora l'ho ringraziato per quanto raccontatomi, sapendo che quelle parole erano state preziosissime...
Feci in ritardo all'appuntamento, non perché mi fossi prolungato oltre misura ma per un semplice errore di omonimia del luogo. Dato che lei viveva da alcuni mesi a Kathmandu non avevo alcun dubbio sul fatto che mi avrebbe guidata nel dedalo di strade del centro. Imboccammo una strada finché giungemmo a Indra Chowk, una piazzetta del quartiere Thamel. Qui c'era il tempio induista Akash Bhairab dove siamo entrati sedendoci per qualche minuto. Quel luogo era piacevole perché pur essendo ubicato in una piazzetta caotica permetteva al suo interno di ritrovare un attimo di quiete e assaporare un'affascinante atmosfera religiosa. I fedeli che giungevano invocavano una preghiera alla divinità attraverso il suono di una campana, la recita di un mantra e il triplice giro dell'altare.
Al termine della visita abbiamo imboccato una traversa che ci avrebbe condotti direttamente su Durbar Square, la piazza principale di Kathmandu, sede dei più bei templi della città nonché luogo di passeggio e culto. Abbiamo avuto appena il tempo di iniziare a percorrere la strada quando un forte rumore ci ha destati; una serie di colpi, che sul momento avevo associato a degli spari, hanno ingenerato subito il terrore tra i nepalesi. Non sapendo di cosa si trattasse il mio sguardo si è rivolto istintivamente in alto dove nel frattempo s'era levato il volo delle colombe spaventate. Era forse in corso un colpo di Stato da parte dei militari? Questo è ciò che ho pensato sul momento, poi istintivamente sono scappato al centro della piazza proprio come faceva il resto della gente, senza capire ancora cosa stesse succedendo. Nel momento in cui mi sono fermato tra la gente ho percepito chiaramente che il terreno sotto i piedi stava tremando, ma la vibrazione era talmente forte da costringermi a divaricare le gambe per evitare di cadere. E mentre ondeggiavo provando a mantenermi stabile ebbi come un senso di stupore perché tra tutti gli imprevisti che avevo ipotizzato riguardo al Nepal il terremoto non era contemplato. Non avevo mai sentito parlare di terremoti in questo paese, anzi ero persino convinto che essendo così in quota e a ridosso della catena himalayana la sismicità fosse rara. Invece rievocavo solo in quel momento che la placca indiana continuava a spingere su quella asiatica determinando il fenomeno che stavo vivendo.
In quello stesso istante un nepalese in preda al terrore mi afferrò il polso stringendolo forte, i suoi occhi sgranati, persi nel vuoto mi ricordavano quelli del rivoluzionario rappresentato da Goya nel quadro 3 maggio 1808: ricordo gli stessi baffi, la stessa carnagione scura e lo stesso timore di perdere la vita davanti al plotone d'esecuzione dei soldati francesi. Capii che quel gesto per lui era una fonte di conforto così non feci più caso alla sua mano, anzi considerai quella stretta di uno sconosciuto come il sentimento più umano che potessi vivere in quei secondi di terrore; dei secondi eterni, come sempre in questi casi, essendo la scossa durata quasi due minuti.
Non era la prima volta che sentivo il terremoto, provenendo da una zona sismica questa percezione adrenalinica si è più volte manifestata anche se per brevi istanti, ma in un tempo così prolungato la mente ha la possibilità di elaborare moltissimi pensieri e sensazioni. Dapprima cercavo rassicurazioni circa la mia incolumità guardando gli edifici attorno a me che fortunatamente non mostravano segni di cedimento o di crollo. E forse proprio a causa di questa certezza ho mantenuto per tutto il tempo una freddezza e una lucidità che non avrei mai immaginato. Non mi sono mai fatto sopraffare dal panico, anzi l'autocontrollo mi ha indotto ad acuire i sensi tra cui quello dell'equilibrio, ciò mi ha fatto visualizzare mentalmente quella sensazione come una vibrazione sinusoidale con creste d'onda piuttosto marcate la cui propagazione procedeva in senso orizzontale; una sensazione che mi fece porre sul momento una domanda: come riuscivano a restare in piedi i palazzi se persino il mio equilibrio era messo a dura prova? Eppure ciò avveniva, ed era la ragione per cui tutti coloro che si trovavano con me in quella piazza e nelle immediate vicinanze, non avevano riportato alcun danno. La piazza normalmente piena di gente adesso traboccava di superstiti fuggiti da ogni angolo del circondario, mentre davanti a me una donna in ritardo rispetto all'inizio della scossa, scappava dalla stradina, forse fuggendo da un'abitazione.
Al mio fianco un gruppo di donne piangeva tenendosi abbracciate, mentre alle mie spalle udivo frasi scomposte e urla come quelle ben più familiari di un mercato rionale. Ciò che non riuscii a sentire invece era il tipico rumore grave dei terremoti che in quella circostanza, probabilmente, era coperto dalle grida della gente, o forse a causa della geologia del luogo la propagazione del suono ne risultava diversa. Ammetto di non aver mai provato un tale senso di sottile comunanza con tanta gente come in quel momento; eravamo tutti stretti l'uno accanto all'altra, vivendo la stessa paura e la stessa volontà di uscirne illesi: anche se venivamo da luoghi, lingue e culture completamente diverse, l'empatia collettiva e il senso di coscienza era la medesima.
Quando la scossa ha allentato la sua intensità la riduzione della sua potenza è stata, per me, del tutto sorprendente. A mia memoria quando un terremoto cessa, finisce d'essere percepito dai sensi, come se una mano invisibile girasse un interruttore per interrompere il movimento. In quel terremoto invece la diminuzione dell'intensità era avvenuta con uno smorzamento elastico che via via andava scemando. Questa sensazione mi ha fatto pensare di poggiare i piedi non sulla terra ferma ma su di un rullo elastico, come se l'evento non fosse reale ma artificialmente indotto. Mi ha stupito notare che la terra che noi consideriamo normalmente dura, compatta e resistente, in realtà possegga delle caratteristiche opposte. Avrò modo di scoprire successivamente che il sottosuolo della capitale si trova sul letto di un antico lago prosciugato e riempito di rocce sedimentarie che hanno amplificato gli effetti del sisma e forse hanno causato questa mia percezione.
Persone in fuga da Indra Chowk
Edificio danneggiato nei pressi di Durbar square, due poliziotti che accorrono sul luogo

Quando ho pensato che il terremoto fosse finito in realtà le punte dei lampioni e delle antenne oscillavano ancora: forse l'evento non era ancora del tutto terminato o forse i miei sensi mi ingannavano dopo tanto scuotimento. Poi con lo sguardo ho cercato la mia amica che assurdamente si era rifugiata in una casa di legno e mattoni proprio di fronte a me. Le feci cenno di avvicinarsi, poi quando tutto fu cessato suggerii di muoverci e andare più avanti dove c'era una piazza ben più ampia. Per quanto avessimo vissuto attimi di paura, intorno a noi non c'erano molti danni, solo qualche calcinaccio e una vetrina frantumata lungo la via. Ciò mi ha indotto a pensare che forse il terremoto non era stato così forte come pensavo, però mi resi anche conto di vivere la Storia, una circostanza grave di cui ero testimone. Per questa ragione estrassi la mia reflex con l'intento di documentare quanto avveniva intorno a me.

Camminammo lungo la strada giungendo ad una rotatoria dove la gente si era riversata come in una barca di profughi in mezzo al mare. Dietro spiccava un edificio dalla facciata bianca seriamente danneggiato. La rotatoria si collegava a destra ad un'altra strada di accesso a Durbar square. Lungo la via, che percorremmo spinti dalla curiosità di sapere meglio ciò che era avvenuto, i danni si presentavano maggiori rispetto a quelli visti sino a quel momento. Sulla mia destra erano crollate parti delle due cosiddette torri, quella di Patan e quella di Basantapur, somiglianti più che altro a dei templi in ragione della forma caratteristica dei tetti. Sulla strada erano caduti dei detriti di legno e mattoni che per fortuna non avevano colpito nessuno; ma più avanti, a fianco di questi edifici i danni erano maggiori, perché il palazzo bianco in stile europeo chiamato Gaddhi Baithak mostrava un'ala totalmente crollata e la restante facciata seriamente danneggiata: sembravano gli istanti successivi ad un bombardamento aereo.

Sulla destra il Gaddhi Baithak danneggiato, al centro il tempio Trailokya Mohan Narayan crollato

Ci siamo avvicinati ancora giungendo nello stesso luogo dove giorni prima m'ero soffermato a prendere un tè, ossia Basantapur square, una piazza che fa ad angolo con la famosa Freak street e la vicina Durbar square. Il luogo era pieno di gente, essendo uno spazio sufficientemente sicuro. Da quel punto, superata l'emozione iniziale riuscii a gettare uno sguardo oltre la folla, là accanto all'edificio settecentesco della kumari, rimasto integro, c'era un cumulo di macerie formato da mattoni rossi e assi di legno: il tempio induista Trailokya Mohan Narayan del 1680 era crollato! Grande fu il mio stupore perché la polverizzazione di quel gioiello fotografato giorni addietro proporzionava, a quel punto, le dimensioni della tragedia. Seppur distanti notai tra le macerie alcune persone intente a scavare con le mani per estrarre coloro che erano rimasti sepolti.

La gravità della situazione era tale da sentire di dover comunicare a casa, per questa ragione estrassi il cellulare (incredibilmente la rete telefonica funzionava bene) e abilitai l'uso dei dati. Non appena la connessione fu stabilita su whatsapp giunse un messaggio di mio fratello che anticipandomi mi informò del terremoto. La notizia era già arrivata in Italia ad un quarto d'ora circa dall'evento! Nel momento stesso in cui mi disse che la magnitudo registrata era di 7,8 Richter capii d'aver vissuto la circostanza più pericolosa della mia vita.
Quella consapevolezza mi fece sentire improvvisamente precario. Mi trovavo al centro di Kathmandu e non sapevo ancora che fine avesse fatto il mio amico. Non avevo dubbi sulla tenuta dell'edificio, che proprio come gli altri edifici moderni era fatto in cemento armato, tuttavia mi mancava la certezza delle sue condizioni. Subito dopo un'altra scossa, forte ma non troppo lunga, mi ricordai che dopo un sisma così violento lo sciame che ne sarebbe seguito era altrettanto pericoloso. Sicché dissi alla mia amica che forse era meglio se cercavo un taxi seppure dentro di me avrei voluto comprendere meglio ciò che stava accadendo: mi sarebbe piaciuto girare i quartieri vicini e capire la condizione degli altri edifici, e se avessi avuto più tempo probabilmente avrei voluto partecipare ai soccorsi. Ma con quel caos riuscire a tornare in albergo avrebbe comportato indubbiamente dei ritardi e la cosa più importante per me, in quel momento, era cercare il mio amico e non perdere il volo che mi avrebbe condotto al sicuro.
La mia amica, seppur spaventata, volle farmi ancora compagnia, così abbiamo ripercorso la strada da cui eravamo venuti. In quel momento giunsero, correndo, quattro persone che trattenevano dalle gambe e dalle braccia un uomo, lo stavano allontanando dalla piazza. Il poveretto era tutto impolverato, con delle escoriazioni sulla testa ma ancora lucido, tanto da essere caricato su di una moto di grossa cilindrata che partì subito verso un ospedale. Questa scena, così rapida e inattesa mi è parsa persino irreale, facendomi sentire come all'interno di un film americano del filone disastroso, dove la capacità di rendere verosimili certe devastazioni ha dell'incredibile. Per questa ragione la realtà davanti agli occhi viene spesso paragonata ad un film, perché è a quell'unica esperienza cui possiamo attingere in mancanza di una letteratura o una pittura di genere.
Finalmente a quasi mezz'ora dalla prima scossa, giungevano i primi soccorsi in piazza. Due automezzi a sirene spiegate si dirigevano verso gli edifici crollati. Non sembravano dei mezzi particolarmente organizzati, come poteva essere una squadra di pompieri, ma erano almeno il segno che i soccorritori erano giunti sul posto.

Un edificio crollato

Non troppo lontano da Durbar square c'era una strada sufficientemente ampia dove vidi diversi taxi fermi. Chiesi se era possibile andare a Bodhanath ma mi dissero che a causa del terremoto non si sarebbero mossi per almeno due ore. Poi un'altra scossa violenta, abbastanza lunga da far comprendere quanto ancora l'emergenza fosse ben lontana dall'essersi risolta. Capii quindi che sarei dovuto tornare a piedi e che anzi, più tempo perdevo e più rischiavo di arrivare tardi. Fu a quel punto che dovetti salutare la mia amica, raccomandandole di farsi forza e di stare attenta perché il pericolo non era ancora cessato.
Utilizzando la mappa di Kathmandu già caricata nel cellulare individuai il percorso per raggiungere l'albergo. Non era complicato ma misurava 5 km dal punto in cui mi trovavo perché alla periferia della città. Decisi ovviamente di percorrere le strade principali mantenendomi rigorosamente al centro della carreggiata.
Nel frattempo inviai vanamente un SMS al mio amico, dato che avevamo già appurato che le nostre SIM italiane erano inservibili in Nepal. Collegandomi ad internet invece vidi che mi erano giunti diversi messaggi su Facebook e su whatsapp da parte di molti amici che avevano saputo del sisma: così lasciai un messaggio in bacheca rassicurando tutti.
Un tempio col tetto danneggiato



Lungo le strade i danni non sembravano così ingenti, la maggior parte delle costruzioni che vidi avevano retto, salvo alcuni casi. I crolli interessavano i vecchi edifici o i templi. In una strada principale era crollato un antico portale in pietra che successivamente, su internet, avrò modo di riconoscere in un video nell'atto del crollo. Vidi anche la facciata di una vecchia casa crollata sui fili della corrente nonché un vicolo dove era venuta giù una parete.
Nel frattempo la circolazione stradale cominciava a riprendere, anche se ancora non avevo incrociato nessun mezzo di soccorso, non un'ambulanza, solo vetture private e qualche bus di turisti che si allontanava. Col passare dei minuti poi avevano ripreso a circolare anche i primi taxi, tutti rigorosamente occupati, che si dirigevano verso il centro, probabilmente per consentire ai turisti di recuperare le loro cose. Dei coreani invece si allontanavano a piedi trascinando dei pesanti trolley diretti verso l'aeroporto.
Pali della luce crollati
La mia lunga camminata si concluse in albergo che per fortuna era rimasto in piedi e senza eccessivi danni. Entrando, il responsabile mi disse che il mio amico era già andato in aeroporto e aveva portato con sé anche il mio zaino. Essendo lì, chiesi di poter verificare se si fosse dimenticato qualcosa in camera, ma non appena feci i primi gradini per salire al piano superiore un'altra scossa di terremoto ci fece fuggire; era una coincidenza che in questo caso interpretavo come la necessità di andare in aeroporto senza perdere più tempo.
Dovetti raggiungere i dintorni dello stupa di Bodhnath per trovare un taxi che senza troppe difficoltà mi condusse finalmente in aeroporto. Lì impiegai un quarto d'ora per trovare il mio amico in mezzo ad un'immane folla di turisti in attesa. Ci abbracciammo, sciogliendo una tensione durata diverse ore, non avendo alcuna notizia l'uno dell'altro: in fondo sarei potuto rimanere ferito o non arrivare puntuale sul posto lasciando presagire il peggio. Ora però non restava altro che aspettare il momento in cui saremmo tornati a casa, anche se il rientro è un'altra vicenda degna di un altro articolo.
Questa esperienza così importante, sul momento l'ho digerita come nulla fosse. Sentivo di aver orgogliosamente mantenuto saldi i nervi senza mai perdere la ragione su cosa avrei dovuto fare: forse perché non mi sono mai trovato di fronte ad un pericolo eccessivo o forse perché gli edifici di fronte a me erano rimasti intatti. Tuttavia nei giorni successivi al mio rientro in Italia, quando con calma ho rivisto le immagini devastanti dei luoghi in cui ero stato, qualcosa in me si è mosso. Riflettevo sul fatto che pochi giorni prima eravamo saliti sul tempio di Maju Deval a Durbar square, senza poter immaginare che la struttura in legno che sorreggeva il tetto a triplice spiovente sarebbe poi crollata su persone che, come me, vi avevano trovato un ottimo punto di osservazione. A Bhaktapur invece un video mostrava il crollo dei templi nella piazza principale, mentre le altre immagini facevano vedere le stradine ridotte un cumulo di macerie. La mia incolumità è stata senza dubbio una questione temporale, in quanto è difficile immaginare un modo per scappare dai ripidi gradini del Maju Deval o allontanarsi incolumi dalle strette vie di Bhaktapur. A Kathmandu potevo tranquillamente trovarmi in una delle strette vie del centro dove, prima di incontrare una piazza sufficientemente grande, si può essere costretti a percorrere diverse centinaia di metri.


Poteva accadermi di tutto e per fortuna non mi è accaduto nulla di grave, forse a causa di un aneddoto junghiano. Alcuni giorni addietro rispetto al momento in cui scrivo queste parole, un mio amico mi ha avvertito che alle ore 23;45 ci sarà un documentario sul terremoto del Nepal. Così decido di vederlo, lasciandomi al termine della visione un'ondata di dubbi come quelli appena esposti. Poi un'intuizione: il tassello mancante delle mie riflessioni dei giorni passati era l'appuntamento con la mia amica un'ora prima del terremoto. Su quest'incontro c'è un'evidente coincidenza significativa, o per usare una parola junghiana, una sincronicità. L'avevo conosciuta casualmente a Roma, poi l'ho rivista mesi dopo a Catania per un'incredibile coincidenza, dato che non ero un habitué di quel contesto; durante il mio soggiorno in Nepal scopro che anche lei è nel paese, così ci siamo incontrati più volte sino al giorno del terremoto. A mio avviso questo incontro mi ha "salvato" la vita, poiché mi sono istintivamente affidato a lei come una sorta di angelo custode. Questa curiosa sincronicità in fondo fa riflettere, così come fa riflettere il gioco numerico che c'è dietro allo svelamento di questa intuizione. È stata la visione del documentario infatti a determinare tale interpretazione, documentario il cui orario così inusuale 23;45 coincide con le 3 ore e 45 minuti di differenza col fuso orario italiano. Inoltre, proprio nello stesso giorno del documentario avevo deciso di eliminare delle fotografie dal cellulare, tra cui un'immagine che rappresentava lo schema delle nostre tappe quotidiane in Nepal. Lo avevamo disegnato il 20 di marzo, cioè il 20/3, quando avevamo deciso definitivamente tutto ciò che riguardava il nostro viaggio.
Questa spiegazione (soprattutto quella strettamente numerica) risulterà per molti lettori fin troppo forzata e priva di oggettività, frutto semmai di una coincidenza. Dico subito di non pensare che la mia versione sia necessariamente la più giusta perché potrebbe essere falsata dal mio coinvolgimento emotivo nella vicenda, tuttavia posso senza dubbio affermare che questo fatto ha inciso sul modo con cui oggi interpreto le coincidenze significative.
In aggiunta a questo discorso, la scorsa estate sono andato in viaggio con lo stesso amico del Nepal. In quella circostanza abbiamo incontrato in Olanda una persona che lavora per un'agenzia turistica, ragione per cui il discorso è facilmente scivolato sul Nepal. Curiosamente ci disse che anche lei, pochi mesi prima stava andando in Nepal ma era stata bloccata dal terremoto; chiedendo spiegazioni abbiamo appurato che lei era in volo mentre la terra tremava, ciò ha indotto il comandante a far tornare indietro l'aereo: in pratica era lo stesso aereo che ci avrebbe dovuti ricondurre a casa quel 25 aprile ma che non è mai atterrato a Kathmandu, ancora una sincronicità!
A fronte di questa incredibile esperienza, ciò che sino a ieri consideravo un caso, adesso mi appare come il segno di ciò che banalmente viene definito come "destino", ma che potrebbe rientrare coerentemente in un concetto olistico di esistenza. Spiegare le molteplici ragioni che m'inducono a seguire tale idea renderebbe necessaria un'esposizione ben più articolata della chiosa di questo articolo. Posso tuttavia affermare che è proprio tale argomento su cui concentrerò le mie ricerche personali nei mesi avvenire.

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