15 luglio 2015

Grotowski: il teatro dell’effimero


Ricorre quest’anno il decimo anniversario della morte del regista teatrale polacco Jerzy Grotowski, forse l’ultimo grande riformatore della cultura teatrale, che fu così innovativa da trasformare l’idea stessa di teatro. Per il rigore della sua concezione teatrale, può essere considerato il riferimento più importante nella ricerca scientifica del secondo Novecento. Grotowski, che ha messo in discussione gli stessi presupposti della tradizione teatrale in Occidente, determinando una svolta teorica di grande importanza influenzando tutte le successive pratiche del teatro; l’evoluzione dell’approccio metodologico, il linguaggio sulla scena, il training dell’attore, il rapporto attore/pubblico, fino al superamento del concetto stesso di spettacolo in vista di una prospettiva più ampia dell’idea di performance, eliminando ogni diaframma tecnico tra attore e spettatore, riconducendo l’intera materia teatrale alla sola materia del corpo dell’attore:  «l’attore fa tutto: lo scenario e il clima, il tempo e lo spazio. È la nostra idea condotta alla forma estrema di “teatro povero”». 


Da queste idee nasce il Teatro Laboratorio di Wroclaw, in cui Grotowski  preparava i suoi allievi, attraverso esercizi  fisici e vocali: «nell’attore, nel suo corpo c’è tutto il teatro, il teatro totale attraverso l’attore totale». Ed è proprio nel Il Principe Costante, uno degli spettacoli del Laboratorio, basato sui testi di Calderon de la Barca (1629), che la critica ha definito come l’esempio più riuscito dell’atto totale teorizzato da Grotowski: « tutto ciò che viene dalla tecnica, tutto quel teatro crudele, si trasforma nei momenti culminanti in un teatro in stato di grazia».
La svolta nella ricerca teatrale di Grotowski avvenne nel 1970,  quando annunciò che non  avrebbe più fatto spettacoli teatrali. Lascia il teatro come partecipazione, come rappresentazione, alla ricerca di un altro teatro.

Comincia per Grotowski un lavoro a fianco del teatro, puntando su dinamiche comunicative fondate su rapporti interpersonali in cui non esistono più distinzioni tra attori e spettatori, in cui non esiste più lo spettacolo: inizia la fase del “parateatro”, in  cui si lavora attraverso pratiche creative, ricettive e particolari esercizi psicocorporei, per conoscere se stessi e incontrare impulsi che vivono nel corpo e nell’anima.

È di questi anni una delle più grandi produzioni teatrali del XX secolo, Apocalypsis cum figuris, uno spettacolo che vive nell’oscurità con solo due riflettori e qualche candela, con uno sfondo irrazionalmente geometrico, in cui ciò che conta è la presenza degli attori, dei loro corpi, delle loro grida, i sussurri, i pianti mistici, le risate, le corse. Uno spettacolo che ha disintegrato il linguaggio teatrale portandolo alle conseguenze estreme, fino al silenzio, all’immobilità, alla scena vuota, uno spettacolo che un critico polacco definì una «messa nera di Grotowsky per i poveri». 


Grotowski cercava un teatro che non fosse teatro, cercava un attore che non recitasse, cercava uno spettatore che non fosse spettatore, un insegnamento che fosse disimparare, cercava l’impossibile. Da qui emerge il ritratto di un maestro, dell’utopia consapevole della realtà in cui viveva, uno scienziato dell’anima che ha attraversato il mondo, partendo dal teatro per arrivare a penetrare a fondo ogni forma interiore ed esteriore dell’esistenza umana.


Questo è l’anno Grotowski, iniziativa promossa dall’UNESCO e dall’Istituto Polacco di Roma, dedicato all’avventura del Teatro Laboratorio e alla sua storia ormai conclusa, alla storia  dell’ultima grande illusione culturale del  Novecento. È  l’anno che ha cercato in qualche modo di omaggiare un grande  maestro del teatro ed un appassionato ricercatore della spiritualità.

Cristina Dipietro

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