L'attesa è il primo lungometraggio del trentaquattrenne catanese Piero Messina, candidato al Leone d'Oro di Venezia 2015. Prodotto da Indigo Film con la collaborazione di Medusa Film che ne è anche distributore italiano, L'attesa si dichiara liberamente ispirato al dramma in tre atti La vita che ti diedi di Luigi Pirandello.
Jeanne (Lou de Laâge) è una giovane francese appena atterrata in Sicilia per fare visita a Giuseppe, ignara che del suo ragazzo si sono appena celebrati i funerali. Anna (Juliette Binoche) è la madre di Giuseppe di origini francesi e l'unica abitante della casa insieme al custode Pietro (Giorgio Colangeli). Pur conscia dell'arrivo della ragazza, ha taciuto e tace circa la scomparsa del figlio. Mistificando la verità agli occhi di Jeanne, lasciandole credere che Giuseppe tornerà a breve, insiste offrendole una secca ospitalità, con la quale spera egoisticamente di rischiarare la luttuosità rustica della villa, il silenzio vetusto in cui sono avvolte le sale di Villa Fegotto - a Chiaramonte Gulfi (Ragusa), già location per La lunga vita di Marianna Ucrìa e I Vicerè di Roberto Faenza. Un incontro sbilanciato, quello tra le due donne più importanti nella vita del defunto: la ragazza relegata nell'ignoranza mentre la madre ne ascolta i messaggi vocali nel telefono di Giuseppe. Jeanne crede alla finzione e comincia a vivere le penombre della villa, diffidente ma attratta dall'angoscia di Anna, dalla sua generosità colpevole. La primavera sembra non attecchire durante la settimana di Pasqua, nella natura come negli interni dell'abitazione, parimenti spogli di vita.
Villa Fegotto
La fotografia, pittorica e protratta nel tempo, il tempo lo incastona e lo sospende, e media tra la disperazione segreta della madre e le sensazioni di Jeanne la quale, chiamando a sé l'immedesimazione dello spettatore, attenua il velo luttuoso che ricopre gli ambienti domestici, riempiendone i silenzi (la colonna sonora assente, riservata a inizio e fine pellicola). La Sicilia è ritratta come impenetrabile, fosca nella sua vita rurale come in quella religiosa (la processione di Pasqua coi penitenti incappucciati); ma attraverso gli occhi di Jeanne ciò appare tradizione, la villa bastione a difesa di un mondo in via di estinzione.
Anna, dal suo canto, spera di ricostruire la vita del figlio, recuperando quelle zone d'ombra che sono precluse a ciascun genitore. Eppure i dialoghi sono rarefatti, tenui, mai cupi. Con la ragazza si crea immediatamente una prudente complicità, fluente per sintonia linguistica. Ma la giovane continua a chiedere quando tornerà Giuseppe, il ragazzo che non ha volto e la voce per due anonime battute appena, proferite con la madre durante un'analessi, flashback: la mano di lui emerge dalla vasca da bagno (la stessa immagine in locandina, la faccia oscurata dietro il vetro) per incontrare quelle della madre, e la volontà di ripartire, è tutto ciò che filtra a proposito del rapporto tra i due. Nulla di più, come se si volesse raccontare che il dolore di una madre è univoco, ha un sapore specifico e lancinante che prescinde dalla natura del rapporto stesso, sia esso d'amore d'odio o di estraneità; prescinde allo stesso modo dalla causa di morte del ragazzo (che in realtà si intuisce), che non è riportata e non importa. E questa agonia, dichiarata inenarrabile, la brava Binoche la esprime con micromovimenti del volto, primissimi piani, resistenze epidermiche volte a trattenere i sussulti di pianto. La scommessa recitativa dell'attrice sta proprio in questo, il carico patetico del lungometraggio tutto nella sola sua maschera. Il dolore del proprio grembo non si rappresenta mimeticamente, lo si vive e lo si sconta, ed è quanto la Binoche ottiene attraverso un'espressione prosciugata nel troppo patire eppure ancora cangiante, ancora materna. L'atteggiamento nei confronti della compagna del figlio muta - da iniziale negazione (della verità) e rifiuto - divenendo protettivo, diventa tentativo di schermarla dalla sofferenza con una seconda menzogna, forse più crudele ma libera dal trauma. Della ragazza vuole preservare il candore, lasciare quella giovinezza intatta da cicatrici emotive. Il lutto è tutta responsabilità materna, fardello indistribuibile e taciuto. E allora l'attesa è quella, illusoria, di una giovane amante e della quale Anna si nutre, perché nel desiderio di Jeanne il figlio ancora vive.
Livio Cavaleri
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