13 aprile 2016

Momenti di (non) trascurabile leggerezza

Se volessi scegliere un simbolo augurale per l'affacciarsi al nuovo millennio, sceglierei questo: l'agile salto improvviso del poeta-filosofo che si solleva sulla pesantezza del mondo, dimostrando che la sua gravità contiene il segreto della leggerezza, mentre quella che molti credono essere la vitalità dei tempi, rumorosa, aggressiva, scalpitante e rombante, appartiene al regno della morte, come un cimitero d'automobili arrugginite.
Italo Calvino, Lezioni americane

Momenti di trascurabile leggerezza


Una delle sei Lezioni americane che Calvino scrisse per l’Harward University, ma che non ebbe il tempo di tenere per l’impazienza della morte, è quella sulla leggerezza. Scrive: «Presto mi sono accorto che tra i fatti della vita che avrebbero dovuto essere la mia materia prima e l’agilità scattante e tagliente che volevo animasse la mia scrittura c’era un divario che mi costava sempre più sforzo superare. Forse stavo scoprendo solo allora la pesantezza, l’inerzia, l’opacità del mondo: qualità che s’attaccano subito alla scrittura, se non si trova il modo di sfuggirle».
Calvino cercava una qualità che non è mai mancata ai migliori film della Commedia all’italiana, quella leggerezza che dà all’ironia una poesia lieve, una delicatezza che rende garbate anche le battute più esplicite. È quanto Francesco Piccolo ha mostrato d’aver appreso sceneggiando film come Paz! (di Renato De Maria), My name is Tanino o il più recente La prima cosa bella (entrambi di Paolo Virzì). È quanto lo scrittore casertano, con ancor più flagranza, mostra in Momenti di trascurabile felicità, un’indefinibile raccolta che con delicatezza, gusto del dettaglio e psicomania, sta tra l’ironia acuminata di Flaiano e certe sfacciate crudeltà di Karl Kraus.
L’intento di Piccolo sembra lo stesso del pittore Edward Hopper che, da un lato dichiara, modesto, «Tutto quello che volevo era dipingere la luce del sole sul lato di una casa», dall’altro cerca frammenti di eternità, gli istanti inutili e pur, mostra la sua pittura, così miracolosi.
Sia chiaro, il paragone con Hopper si ferma qui, né ritengo Piccolo all’altezza del pittore americano, ma la sua ricerca, il tentativo di fissare sulla pagina certe facezie non può non ricordare una versione nostrana di Hopper: un po’ filosofo, un po’ ciarliero: molto napoletano.

«Perché in un locale o in un qualsiasi altro posto pieno di gente, quando va via la luce parte un applauso? Si sentono urla e applausi, e poi c’è qualcuno che dice “stai a posto con le mani!” e tutti ridono. E poi quando la luce torna, c’è ancora un altro applauso e un generale sospiro di sollievo».
(pag. 59)

«Il modo i cui i benzinai danno il resto, tutti nello stesso modo, come se avessero fatto una scuola. Tirano fuori un portafogli enorme, pieno di banconote stirate e compatte, divise in ordine decrescente: le 100 euro, le 50, le 20, le 10, e 5 euro. Prendono una banconota alla volta, la fanno frusciare colpendola con le dita, e dicono: e sono venti; e sono trenta; e sono cinquanta».
(pag. 112)

«[…] il momento in cui è passato abbastanza tempo per cui puoi andarti a lavare dopo aver scopato senza che questo sembri scortese.
Però questo momento non lo capisci sempre quando è arrivato».
(pag. 27)

Piccoli racconti, spesso dalla trama circolare, illustrano amori che nascono e muoiono inconsapevolmente. C’è quello, quasi buzzatiano, finito a causa dei passaggi a livello che ostacolavano il percorso in auto che il protagonista compiva per accompagnare la sua ragazza e che finiranno per ossessionarlo. C’è il racconto del “traffico” notturno delle bottiglie di vino a Roma che, regalate in occasione di una cena, finiscono per essere riciclate e passare di mano in mano e di casa in casa. C’è l’esilarante questione dei martelli frangi vetro sui treni e la questione del taschino sul petto dei pigiami.

«Quegli uomini che prendono la cassetta dei ferri, la scala o il trapano elettrico, e stanno lì delle ore in silenzio, ogni tanto canticchiano un motivo con un chiodo in bocca – e non lo ingoiano mai – e non la smettono fino a quando il lavoro non è finito. Non amano lasciare le cose a metà. E poi, manca un chiodo o una chiave inglese di qualsiasi tipo? Loro sanno dove andare, che tipo di domande fare, e tornano a casa con quegli adorabili pacchetti con l’involucro fatto della carta dei giornali, li aprono e mostrano tanti chiodini di tutte le specie.
In quella cassetta dei ferri, forse, c’è l’indispensabile per vivere una vita felice.
Mi piace stare ore a guardarli, e mi piace che non sono uno di loro».
(pagg. 41-42)

«Bisogna riuscire a divulgare una convenzione valida per tutti: come comportarsi quando cade la linea tra due che stanno al telefono.
Secondo me, deve richiamare quello che aveva chiamato.
Sarebbe bene mettersi d’accordo tutti, una volta e per sempre. Perché di solito ci riprovano tutti e due – o attendono tutti e due che ci riprovi l’altro. O dicono all’unisono: vabbe’, ci sta provando lui, oppure continuo a provarci io. E in ogni caso, nel momento in cui si decide di provare, l’altro risulta occupato perché ci sta provando anche lui.
Una regola che desse un’indicazione precisa e incontrovertibile, rasserenerebbe molto gli animi».
(pagg. 118-119)

«Alcuni gesti insensati.
Soffiare su un pezzo di pane caduto a terra e poi mangiarlo come se fosse stato ripulito.
Quando la luce si è fulminata e continui a premere l’interruttore guardando in su la lampadina, aspettando il miracolo […].
Durante le conferenze, riempirmi il bicchiere d’acqua e bere – mi sembra un gesto autorevole».
(pag. 40)

Un manuale, questo dello scrittore casertano, di piccole folgoranti inezie, inutili o secondarie quanto lo sono quei momenti (la sfrontata maggioranza) che punteggiano le nostre vite – almeno la mia.


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