9 marzo 2017

Il condizionamento futurista nel cinema

Marinetti

Immersa in un profumo di modernità l'Italia novecentesca usciva dalla civiltà contadina cercando qualcosa di nuovo.
Prendevano piede le rombanti automobili per le strade, gli scioperi e i diritti. Il cittadino novecentesco faceva capolino su una realtà che poteva dargli molto ; un gruzzoletto di denaro ottenuto dalla lotta sociale, poteva permettergli di frequentare sale cinematografiche o caffè letterari. L'innovazione plasmava i mestieri, le persone e le attività e per questo anche l'arte doveva abbandonare i modelli ottocenteschi e "rinfrescarsi" .
Primi tra tutti i futuristi italiani lanciarono la novità con un'arte trasgressiva.

«Nel film futurista entreranno come mezzi di espressione gli elementi più svariati: dal brano di vita reale alla chiazza di colore, dalla linea alle parole in libertà, dalla musica cromatica e plastica alla musica di oggetti. Esso sarà insomma pittura, architettura, scultura, parole in libertà, musica di colori, linee e forme, accozzo di oggetti e realtà caotizzata.
Offriremo nuove ispirazioni alle ricerche dei pittori i quali tendono a sforzare i limiti del quadro. Metteremo in moto le parole in libertà che rompono i limiti della letteratura marciando verso la pittura, la musica, l'arte dei rumori e gettando un meraviglioso ponte tra la parola e l'oggetto reale.»*

L'evoluzione artistica della corrente futurista penetrava l'ambito cinematografico rimodellandolo dall'interno. Se fino a quel momento sulla pellicola regnavano ordine ed equilibrio, il movimento ne stravolgeva i canoni. L' obiettivo era quello di abbandonare la tradizione per trasmettere una dimensione altra sullo schermo accentuando movimenti e fusioni di musica e colori. Si susseguivano scene ricche di immagini alterate, simboli occulti apparentemente privi di senso che spingevano lo spettatore verso sensazioni interrogative ed inquiete.


«Se vorremo esprimere lo stato angoscioso di un nostro protagonista invece di descriverlo nelle sue varie fasi di dolore daremo un’equivalente impressione con lo spettacolo di una montagna frastagliata e cavernosa.»*

Ma non tutto si concentrava sul dolore. Amanti del genere comico si avvicinarono in qualche aspetto al lavoro di Charlie Chaplin e Buster Keaton. I due maestri della comicità esportarono nel cinema il modello della chase, dove una serie di rocamboleschi inseguimenti si intrecciavano a storie d'amore, lavori estenuanti ed imprese impossibili. Facendo tesoro di ciò, i futuristi, se ne ispirarono modificandone i codici.

«Vogliamo dare una sensazione di stramba allegria: rappresentiamo un drappello di seggiole che vola scherzando attorno ad un enorme attaccapanni sinché si decidono ad attaccarcisi.»*

Tempi moderni (1936) di Chaplin aveva visto nel personaggio di Charlot l'elemento chiave. Charlot perdeva il controllo sul posto di lavoro, a causa dei ritmi stressanti, cominciando ad avvitare tutto ciò che somigliasse ad un bullone o escogitava un piano per tornare in carcere, ordinando un pasto abbondante, se lo gustava fino all'ultimo boccone per poi non pagare e chiamare le forze dell'ordine per farsi arrestare. La maggior parte dell'azione si concentrava su di lui.

Come fu che l'ingordigia rovinò il Natale a Cretinetti (1910) di Andrè Deed, cortometraggio di stampo futurista, riprendeva il modello chapliniano, applicando un tono del tutto ironico al suo personaggio. Cretinetti, nel ruolo del bambino goloso, una volta messo a letto dai genitori, non resiste alla tentazione di assaggiare tutti i dolcetti appesi all'albero di natale fino a trasportare tale nella sua cameretta. L'ingordigia lo porterà in un sogno sovrannaturale, in una visione infantile del paradiso (dove continuerà a mangiare dolcetti) e dell'inferno (dove verrà inseguito da alcuni diavoletti).


La prima metà del novecento hollywoodiano avviava il fenomeno del divismo. Venivano presi attori famosi proiettati su un'idea di bellezza, di opulenza, di drammaticità. Lo spettatore veniva spinto ad idealizzare una realtà che non corrispondeva alla vita quotidiana. Se il neorealismo italiano aveva posto le basi per un cinema vero "senza veli" che metteva lo spettatore di fronte ad una riflessione, il divismo tendeva invece a mostrare "il lieto fine" della favola, puntando più sull'emozione che sulla riflessione.

Anton Giulio Bragaglia, regista futurista, emerse grazie alle sue visioni innovative importate sulla pratica del dinamismo, dove focalizzava l'attenzione sull'intervallo del movimento. I fotogrammi si moltiplicano, si allungano sulla pellicola nelle sue diverse posizioni evidenziando l'aspetto dinamico dell'immagine.


Nel film Thaïs (1917) ribaltava lo schema del divismo, evocando un cinema sensoriale. L'attrice protagonista non aveva una celebre carriera alle spalle, ma la sua affascinante interpretazione la illuminava sulla scena. Thaïs irrefrenabile seduttrice, si scontra dopo la morte dell'amica con la sua irrazionalità, accentuata dai motivi geometrici del pittore Enrico Prampolini, che evocano nello spettatore lo stesso senso di turbamento vissuto dalla diva.

La corrente artistica si riflette su di lei, sulle sue percezioni e sul suo ambiente.

«I costumi della protagonista sono artistici, geometrizzanti: calze a righe bianche e bottoni tondi alla Pierrot, sempre accompagnati da una parrucca bianca. C'è un movimento di figure geometriche che rimanda idealmente alla pittura. Quando Thais decide di uccidersi, appare in una scenografia prospettica fatta di quadrati inseriti gli uni negli altri (...)»**


Il lieto fine fa posto alla morte. Essa si presenta prima naturale, sotto forma di incidente, apparentemente non ricercata, nella caduta da cavallo di Bianca. Poi muta in colpevole, disperata, divorata dal delirio nel suicidio di Thaïs.

*F.T. Marinetti, Bruno Corra, E. Settimelli Arnaldo Ginna, G. Balla, Remo Chiti Manifesto futurista pubblicato nel 9° numero del giornale L'Italia Futurista, 11 settembre 1916
**Le icone fluttuanti. Storia del cinema d'artista e della videoarte in Italia - Angela Madesani

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