Quando per la prima volta lessi il capitolo de Il grande inquisitore all’interno de I fratelli Karamazov di Dostoevskij non mi resi conto della portata del testo, anzi ricordo che mi parve qualcosa di strano, tanto da non riporre l’attenzione di cui necessitava; è stato poi il suggerimento di un amico a farmi riprendere il testo, scoprendo quanto fosse pregno di sconvolgenti verità.
La leggenda del Grande inquisitore è molto citata nell’ambito della critica letteraria ma anche in ambito cattolico. In genere si sottolinea la potenza del messaggio e la forza con cui Dostoevskij esprime l’incapacità dell’uomo nel gestire l’ebrezza della libertà che gli è stata donata con la venuta di Cristo. È evidente una feroce critica all’ortodossia cattolica che in genere viene mitigata nei libri e negli articoli, ma nello stesso tempo c’è una comprensione delle sue drammatiche ragioni. Ciò porta ad un generico disinteresse verso le parti più scomode e irriverenti, forse perché ci si ostina nel leggere il testo seguendo solo un punto di vista “politicamente corretto”. La Chiesa Cattolica quindi ne esce devastata e compatita, secondo logiche che verranno man mano esposte in questo articolo.
Un’altra cosa da aggiungere riguarda l’uso attento e sapiente delle parole, specie nei passaggi fondamentali. Ciò evidenzia come Dostoevskij avesse profonde conoscenze sulla natura del potere e su come esso sia stato gestito nei secoli. Ma non solo, per quanto non sia riscontrabile nelle biografie ufficiali, appare evidente una conoscenza esoterica che non potrebbe spiegare tanta ambiguità lessicale sui temi in questione. A detta di un ex-massone come Francesco Pecoraro alias Carpeoro, personalmente interpellato sulla questione, mi è stato risposto che Dostoevskij era anche massone. Così se vogliamo prendere per vero questa dichiarazione, la chiave di lettura che propongo risulta del tutto coerente.
Tenendo fede al testo dell’edizione 1994 Oscar Mondadori de I fratelli Karamazov su traduzione di Nadia Cicognini e Paola Cotta, mostrerò una serie di passaggi piuttosto controversi nel dialogo-monologo tra il Cristo e l’inquisitore.
Il personaggio del Grande inquisitore è romanzescamente “inventato” da Ivan Karamazov, immerso nelle vicende storiche dell’inquisizione spagnola del XV secolo, epoca in cui è ambientata la vicenda. La narrazione si apre con l’arrivo di Gesù in una Siviglia insanguinata dalle pubbliche esecuzioni promosse contro gli eretici puniti dal tribunale dell’inquisizione. Egli giunge nella piazza principale, riconosciuto da una folla che subito gli implora dei miracoli. Gesù così guarisce un cieco e resuscita una bimba. Nell’euforia scatenatasi tra la gente giunge anche il Grande inquisitore seguito: «...a una certa distanza dai suoi tetri aiutanti, i suoi schiavi e la “sacra” guardia.» Emerge un primo dettaglio in questa citazione, quella “sacra” guardia il cui virgolettato presente nel testo sembra una puntualizzazione piuttosto sarcastica, evidenziata subito dopo quando l’inquisitore: «…aggrotta le folte sopracciglia canute e il suo sguardo risplende di una luce sinistra.» Si evidenzia così la dicotomia tra il positivo rappresentato da Gesù e il “sinistro” dell’inquisitore.
La scena poi si sposta nella prigione in cui viene rinchiuso il Cristo. Entra l’inquisitore e invece di accogliere il Messia come ci si aspetterebbe da parte di un religioso egli lo accusa dicendogli: «Perché sei venuto a infastidirci? Perché sai anche tu che sei venuto a infastidirci.» A questo punto è l’inquisitore a parlare, mentre il Cristo ascolta senza profferire parola. Il discorso così verte sul ruolo assunto dalla Chiesa in grado di convincere gli uomini sul fatto che essi siano liberi, seppure: «…essi hanno in realtà deposto la libertà ai nostri piedi» come confessa l’inquisitore, aggiungendo che l’autorità che egli rappresenta tiene in pugno gli uomini a causa della loro natura ribelle: «L’uomo è stato creato ribelle; ma possono forse essere felici i ribelli? “Ti avevamo avvertito” […] “avvertimenti e consigli non ti erano mancati, ma tu non li ascoltasti, tu rinnegasti l’unica via per la quale si potevano rendere felici gli uomini; ma, per fortuna, andandotene, affidasti a noi la cosa. Tu hai promesso, hai garantito con la tua parola, ci hai dato il diritto di legare e di liberare e ora non puoi proprio pensare di riprendertelo.”»
Ma cosa vuole dire l’inquisitore con: “Ti avevamo avvertito”? E perché usa il plurale? Delle domande che troveranno risposta da sole. Ed egli infatti prosegue dicendo che: «Lo spirito intelligente e terribile, lo spirito dell’autodistruzione e del non essere [...] il grande spirito parlò con te nel deserto e ci è stato tramandato dai libri che egli ti tentò.» Quindi il senso dell’avvertimento (sei stato avvertito) è certamente legato alle tentazioni di Cristo nel deserto (nel testo il termine è curiosamente virgolettato come se volesse relativizzarne il senso comune), quando cioè il diavolo in persona lo tenta per ben tre volte. Qui l’inquisitore prende chiaramente le difese dello spirito intelligente e terribile attraverso delle motivazioni che espliciterà più avanti. Ma vorrei prima porre l’accento sugli strani appellativi (spirito intelligente e terribile, grande spirito, non essere) utilizzati da Dostoevskij per definire il diavolo. Risulta evidente che non ci troviamo davanti ad una considerazione bigottamente cristiana delle vicende evangeliche, ma ad una valutazione di natura più esoterica. La ragione per cui le tentazioni nel deserto vengono considerate come un “avvertimento” risiede nel ruolo da liberatore che il Cristo concede all’uomo con la sua venuta, quel libero arbitrio messo in discussione dalla natura ribelle degli uomini; talmente ribelle da far sì che dopo mille anni di libertà (così immagina l’inquisitore), dopo aver perseguitato coloro che oggi dominano gli uomini, essi stessi angustiati e delusi da questa condizione, rigetteranno la libertà avuta per riottenere l’ordine e l’agognato pane di cui necessitano: «“Sfamaci, perché coloro che ci avevano promesso il fuoco dei cieli non ce l’hanno dato.” E allora saremo noi a finire la loro torre poiché la finirà chi li sfamerà e saremo noi a sfamarli, nel nome tuo, dando a credere di farlo nel nome tuo.» Il promesso fuoco dei cieli probabilmente allude al mito di Prometeo che rubando il fuoco agli dei dona agli umani una conoscenza che apre nuove libertà; parimenti è il Cristo, apportatore di un messaggio liberatorio: «Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell’uomo saranno quelli della sua casa.» (Matteo 10,34-36). In ciò s’insinua il vero ruolo della Chiesa Cattolica attraverso un potere necessariamente acquisito a causa dell’incapacità umana nel gestirsi.
Ma ecco dopo pochi passi giungere un’altra frase sferzante col medesimo tono: «...e confidavi, che, seguendoti, anche l’uomo sarebbe rimasto con Dio, senza bisogno di miracoli! Ma tu non sapevi che non appena l’uomo avesse rinnegato il miracolo avrebbe rinnegato anche Dio poiché l’uomo non cerca tanto Dio quanto i miracoli. E, non avendo la forza di rinunciare ai miracoli, l’uomo si creerà nuovi miracoli, suoi propri, e si inchinerà ai prodigi di un guaritore o alle stregonerie di una fattucchiera fosse anche cento volte ribelle, eretico e ateo!»
Per l’inquisitore tale è la sfiducia negli uomini e nella loro incapacità a gestirsi che accusa il Cristo di aver “insegnato loro a insuperbirsi” attraverso la sua venuta, convincendoli di potersi elevare seguendo la retta via. E per questo aggiunge che: «...concederemo loro anche il peccato perché sono deboli e fragili e ci ameranno come bambini perché permetteremo loro di peccare. Diremo loro che ogni peccato, purché commesso con il nostro consenso, verrà riscattato; che concediamo loro di peccare perché li amiamo e che il castigo per questi peccati lo prenderemo su di noi. Lo prenderemo su di noi ed essi ci adoreranno come benefattori perché ci saremo fatti carico dei loro peccati dinanzi a Dio. E non avranno più segreti per noi. [...] Tutti, proprio tutti i segreti più angosciosi della loro coscienza li porteranno da noi e noi li risolveremo, ed essi si rimetteranno con gioia alla nostra decisione perché ciò li libererà da un grande affanno e dalla terribile attuale sofferenza di dover decidere da sé.» E poi: «...solo noi, noi che siamo depositari del segreto, saremo infelici. Vi saranno miliardi di creature felici e centomila martiri che avranno preso su di sé la maledizione della conoscenza del bene e del male.» Quest’ultima frase sembra alludere al vero senso del peccato originale, al fatto cioè che l’uomo aveva colto il frutto proibito dell’albero del bene e del male (ossia la conoscenza) e per questo punito.
L’inquisitore accusa Gesù di non aver voluto considerare realmente la condizione umana, di aver concesso la libertà che è poi un fardello, un fardello che procura solo ansie; e per queste ansie gli uomini rinnegheranno anche il Salvatore. Così aggiunge se Egli si fosse lasciato tentare mostrando a tutti la sua Gloria questa libertà non sarebbe stata rivelata e gli uomini non sarebbero stati liberi di scegliere. E poi lo provoca dicendo: «Oh, tu comprendesti che facendo un solo passo, anche il solo gesto di gettarti giù avresti subito tentato il Signore e avresti perduto tutta la tua fede in lui e ti saresti sfracellato su quella terra che eri venuto a salvare, e lo spirito ingegnoso che ti aveva tentato avrebbe esultato.» Questa affermazione se letta con attenzione è degna dei tormenti dostoevskiani tra fede e ateismo, ma certamente posta contro la figura di Cristo sembra persino blasfema, se non inopportuna. Ma sono i cortocircuiti come questo che amplificano la pregnanza del testo.
Ci avviciniamo dunque ai passaggi in cui l’inquisitore palesa la natura del potere temporale della Chiesa: «Possibile che tu sia venuto davvero solo agli eletti e per gli eletti? Ma se è così, questo è un mistero che noi non possiamo comprendere. E se è un mistero, avevamo noi pure il diritto di predicarlo e di insegnare agli uomini che non la libera decisione del loro cuore importa, né l’amore, bensì il mistero a cui devono assoggettarsi ciecamente, anche contro la loro coscienza. E così abbiamo fatto. Abbiamo corretto la tua opera, fondandola sul miracolo, sul mistero e sull’autorità.» Ecco un punto cruciale del testo, laddove si mostra come la Chiesa Cattolica utilizzi questi tre principi per assoggettare (benignamente) gli uomini distorcendone il vero messaggio.
Certamente non sbaglia l’inquisitore quando afferma che l’uomo ha bisogno di venerare, ma soprattutto di venerare collettivamente. Per questa ragione, nella storia gli uomini si sono sterminati tra loro e hanno creato gli dei; divinità necessarie a dare un senso all’esistenza, poiché nel momento in cui si perdono le certezze, l’uomo preferisce uccidersi, anche se intorno vi è benessere o “pani” come scrive Dostoevskij: un aspetto che oggi si palesa nell’assenza di valori che moltiplica i malesseri dell’animo.
Man mano che avanza la lettura emergono sempre più, non solo le accuse al ruolo di Cristo, ma una sorta di ateismo dell’inquisitore: «Ti giuro, l’uomo è stato creato più debole e più vile di quanto tu pensassi!»
Dell’ateismo dell’inquisitore si parla anche sul finire del poema, quando Alëša ribatte che il segreto dell’opera del fratello risiede nel fatto che egli non crede in Dio. Ed egli infatti conferma ciò, aggiungendo che in fondo ama l’umanità e per questo egli soffre. Poi quando torna a parlare degli uomini pronuncia un’altra frase ambigua: «…esseri incompiuti, creati per burla, a titolo di esperimento.» Cosa vuole dire con “creati per burla, a titolo di esperimento”? Se non stessimo parlando di Dostoevskij si potrebbe pensare che qui si allude alle stesse tesi di Mauro Biglino quando, interpretando letteralmente la Bibbia, considera l’uomo come il frutto di un esperimento genetico degli Elohim. Ma non vogliamo certamente sostenere questa tesi, semmai evidenziare tutti quegli elementi di controversia che come in questo caso moltiplicano gli interrogativi.
Nel dialogo tra Alëša e Ivan si dice: «… basterebbe che vi fosse uno come lui perché finalmente si scoprisse qual’è il principio-guida di tutta l’opera di Roma, con tutte le sue armate e i suoi gesuiti, l’idea suprema di tale opera. Ti dico con franchezza che credo fermamente che un uomo simile non sia mancato fra coloro che sono a capo del movimento. Chissà, forse ve ne saranno stati anche fra i pontefici romani! E chissà, forse questo vecchio maledetto, che amava così a modo suo e con tanta ostinazione l’umanità, esiste anche ora sotto l’aspetto di un’intera schiera di vecchi siffatti, e non esiste per caso, ma in conseguenza di un accordo, di un’alleanza segreta, stabilita già da molto tempo per custodire il mistero, per preservarlo dai comuni mortali rendendoli così felici. Ma ho l’impressione che anche i massoni abbiano alla base qualcosa di analogo a questo mistero che i cattolici odino tanto i massoni perché vedono in loro dei concorrenti, una dispersione dell’unità dell’idea, mentre vi dovrebbero essere unico gregge e un unico pastore…» Sembra a tutti gli effetti un discorso che metterebbe in evidenza l’esistenza di un livello di élite che, tra Chiesa cattolica e massoni che terrebbe celati i segreti del governo mondo; e forse non a caso subito dopo Alëša dice al fratello: «Forse sei anche tu massone! – e aggiunge – Tu non credi in Dio.»
Sul finale l’inquisitore affonda ancor di più la sua disapprovazione, colpendo proprio nel cuore della Chiesa: «Perché mi fissi in silenzio, con il tuo sguardo mite e penetrante? Adìrati, io non voglio il tuo amore perché io stesso non ti amo. E che cosa avrei da nasconderti? O non so con chi sto parlando? Ciò che intendo dirti, ti è già noto: lo leggo nei tuoi occhi. E sarei io a doverti nascondere il nostro segreto? Forse vuoi proprio sentirlo dalle mie labbra? Allora senti: noi non siamo con te, ma con Lui – ecco il nostro segreto! Da un pezzo non siamo più con te, ma con Lui: da ormai otto secoli. Sono precisamente otto secoli che accettammo da Lui ciò che tu avevi respinto con sdegno, quell’ultimo dono che Egli ti offriva mostrandoti tutti i regni terreni: noi accettammo da Lui Roma e la spada dei Cesari e dichiarammo di essere i soli re della Terra, gli unici, benché finora non siamo riusciti a portare a compimento la nostra opera.»
Nell’apice della critica dostoevskiana si accusa la Chiesa di aver abbandonato da otto secoli il messaggio di Cristo per abbracciare quello di Lui, dello spirito intelligente, di quel demonio che offriva a Gesù una strada diversa per salvare gli uomini. Dobbiamo necessariamente ricordare che la vicenda si svolge nel XV secolo e che dunque quegli otto secoli sono collocabili col VII secolo. Ma qui diviene difficile stabilire con precisione a quale evento storico allude perché il Grande scisma tra le due Chiese avverrà più avanti nel tempo.
In questa sconvolgente rappresentazione che Dostoevskij fa del potere e della libertà si esplicita anche il senso della frase contenuta nella lettera alla signora Fonvizina del 1854 in cui scrive: «...se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo piuttosto che con la verità.» Ecco quindi che il legittimo dubbio sulla verità comunemente diffusa risuona nell’unico vero riferimento dello scrittore, l’unica certezza riposta nel vero messaggio cristico, rinnegato con forza dall’inquisitore in virtù di una necessità machiavellica dell’esistenza.
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