Durante gli ultimi anni di vita della Repubblica romana uno dei deus ex machina e ago della bilancia nella vita politica di quel tempo fu sicuramente Marco Tullio Cicerone detto anche “il greco” per la sua indole che lo portava a studiare i filosofi greci dell’epoca e non solo. Di Cicerone oltre alle svariate opere politiche e filosofiche ci rimangono una grande porzione di epistole che furono poi suddivise per argomenti: Ad familiares, Ad Marcum Brutum, Ad Quintum fratrem e infine Ad Atticum. Proprio in queste ultime lettere all’amico Attico Cicerone tendeva ad una apertura umana e fragile quasi stesse parlando con se stesso ad esporre i problemi dell’animo umano conseguenza di una società già all’epoca fortemente corrotta. Tito Pomponio Attico fu uno dei migliori amici se non il migliore amico di Cicerone, nasce nel 110 a.C. da un ricco cavaliere romano ma dopo la morte dei genitori fu adottato da uno zio molto facoltoso, si stabili dunque ad Atene dove visse per 30 anni ricevendo le migliaia di lettere del suo amico fraterno. Questa non vuole essere altro che una riproposizione attuale di quelle lettere con cui “il greco” amava parlare prima che con Attico forse anche con se stesso.
Attico Salutem.
Caro Attico, ti aspettavi sicuramente un destinatario di maggior spessore dopo tutti questi secoli ma mi concederai l’occasione, spero, di rivolgerti qualche confidenza cosi come amavano fare alcuni dei tuoi amici di vecchia data. Mi auguro di trovarti in salute e di buono spirito, innanzi tutto cos’è cambiato? poco o nulla si potrebbe dire o forse tutto, sicuramente il tempo in tutti i suoi aspetti. Sono finiti i momenti delle guerre civili, delle amnistie per salvare la Repubblica, delle congiure e degli assassini con i pugnali alle spalle, almeno cosi si dice o magari è solo la storia che ritrovandosi a passare per la stessa strada ha deciso di cambiarsi d’abito restando però simile nelle membra.
Il tempo dunque, come avrai avuto modo di sapere si è tutto abbastanza velocizzato, ti sorprenderà la rapidità con cui riceverai questa lettera, so bene che avresti preferito aspettare qualche giorno in più in cambio di succulente notizie sulla situazione politica di Roma che una lettera istantanea con qualche riflessione ma dovrai accontentarti.
Dunque siamo tutti più rapidi, ci spostiamo da un capo all’ altro del mondo con la stessa velocità con la quale tu uscendo di casa ti dirigevi al foro per ascoltare le orazioni di Ortensio o Cicerone, e sempre dall’ altro capo del mondo riceviamo, subito, una tale quantità di notizie e informazioni che nessun uomo dell’ antichità avrebbe immagazzinato in una vita intera, possiamo svolgere qualsiasi funzione, dovere, obbligo nel minor lasso di tempo possibile e a volte senza neanche dove uscire di casa. Da quello che ti ho appena detto quindi potresti dirmi che intravedi in noi una generazione di giganti, una civiltà evoluta che farebbe ombra alla grandezza ormai cristallizzata di Roma.
Eppure caro Attico non sorprenderti se quello che pensi di vedere è solo il costrutto di un immagine distorta dalla tua mente, siamo veloci è vero ma distratti quasi come le stelle che passando, dimenticano la propria scia in un vuoto di coscienza. Non sappiamo più chi siamo o forse facciamo finta di averlo dimenticato probabilmente perché la memoria, come tutti i doni di un certo valore, ha onori e oneri e quest’ultimi oggi pesano più che in qualsiasi altro momento.
Le distanze fisiche e mentali che dovremmo coprire al contrario si ampliano, diventano voragine si fanno vuoto e sbocciano in assenze. Ci hanno tolto il lusso del pensare, che ha fatto il tuo mondo casa di uomini millenari e senza tempo, non possiamo fermarci se non per prendere fiato in occasione della prossima rincorsa. Solo qualche temerario, ancora affezionato allo stare al mondo, si esclude dalla gara lasciando partire gli altri, certo rimanendo indietro ma mentre quelli volgono lo sguardo a terra per non cadere il loro è già davanti e sanno come finirà la gara.
Ci hanno fatto credere che la rinuncia sia la nuova arte del togliere, che il minimo indispensabile possa vestire la vita col suo abito più corto durante gli inverni che non avranno fine finché non ci avranno tolto anche l’ultimo pezzo di stoffa con cui far finta almeno di essere coperti.
La natura ci è ormai estranea, abbiamo dimenticato come si coltivano i campi, non riconosciamo i frutti ne sappiamo farli crescere con l’arte ormai abbandonata della pazienza, io stesso non so distinguere un Faggio da un Pioppo o un Ciliegio da un Castagno. Non so apprezzare la semplice dignità della legna al fuoco che si consuma per generare calore al contrario nostro che siamo consumati e basta. Se dovessimo mai perderci in un bosco ,sicuramente, non sapremmo orientarci, né di giorno né scrutando le stelle di notte come facevano i tuoi antenati che si perdevano nel Mediterraneo, abbiamo perso il senso dell’olfatto non esitiamo più all’odore del basilico o dei limoni ma restiamo assopiti.
A quante cose dobbiamo ancora rinunciare, Attico, nonostante tutto io preferisco non saperlo.
Abbiamo e non abbiamo, vorremmo, desideriamo, soffriamo, pagheremmo tutti i sesterzi del mondo per avere la sera di giorno e il sole a mezzanotte.
Eppure a ben pensarci tutto quello che ci manca non è a più di due palmi dal nostro naso, due occhi semplici che ci guardano, una passeggiata tra le rovine di una città sommersa, la ragazza che ci porge la frutta di stagione e poi magari stanchi, frastornati da tanta bellezza ma mai troppo sazi da rifiutarla potremmo anche morire.
Qualcuno dice che si impara a vivere quando si sa morire, ed io ancora non ho imparato. E fino a quando dovremo aspettare ancora per imparare Attico? Di cosa ancora dovremo fare a meno? A chi dovremo rinunciare ancora Attico?
XIX Ianuariis MMXVIII.
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