O quando tutte le notti — per pigrizia, per avarizia — ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color cenere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra due muri più alti della statura di un uomo; poi si rompe, strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balconata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sorprende un ribrezzo di pozzo, e con esso l'estasi che solo un irrisorio pedaggio rimanga a separarmi... Da che? Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che bastasse l'impazienza a svegliarmi; bensì in uno stato di sdoppiata vitalità, sempre più rattratto entro le materne mucose delle lenzuola, e non per questo meno slegato ed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta, avendo per appiglio nient'altro che viluppi di malerba e schegge, fino al fondo dell'imbuto, dove, fra macerie di latomia, confusamente crescevano alberi (degli alberi non riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo più tardi a incorporare nei nomi le forme).
Questo incipit mi ha sempre colpito per la costruzione cesellata delle parole, d'un barocco che sembra richiamare il rigoglìo delle balconate siciliane. Bufalino lavorò molti anni a questo romanzo, che è quello d'esordio e con cui è esploso il "caso" del professore di Comiso che lo avrebbe portato alla vittoria del Premio Campiello.
Se l'incipit inizia in questo modo si immagini il resto... Una lettura non semplice, ma pur sempre meravigliosamente ricca di immagini letterarie.
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