19 novembre 2018

Tempo lineare e tempo circolare: le ricadute sulla storia umana


Secondo un’interpretazione tipicamente Occidentale la storia, per come la conosciamo, segue un avanzamento progressivo che porta le società verso un aumento del grado di civiltà e di complessità tecnologica. Per quanto lo studio dei popoli ci mostri sempre un apogeo delle civiltà e un’involuzione che sostituisce un dominatore con un altro, l’idea generale sembra comunque essere quella appena enunciata. I fattori che giustificano questa interpretazione sono ovviamente le svariate conquiste del genere umano come le evoluzioni artistiche, giuridiche (l’abolizione della schiavitù e i diritti fondamentali dell’uomo), i progressi della tecnica ma anche del pensiero e della conoscenza in senso generale.

Il più grande supporto culturale a questa interpretazione si lega al concetto di tempo lineare contenuto nel pensiero giudaico-cristiano e raccontato da Mircea Eliade in un suo saggio sull’argomento. Per tempo lineare s’intende un’escatologia che contempli un’origine delle cose e del tempo ma anche una fine. La “fine dei tempi” in questo caso combacerebbe con la nuova venuta della divinità che chiuderà il ciclo del mondo e delle anime. Ma questo tempo non prevede una forma rigenerativa periodica dell’esistenza, magari attraverso riti o atti, la rigenerazione avverrà esclusivamente alla fine dei tempi e pertanto la vita va accettata, se non dobbiamo persino dire “sopportata”:
«Le credenze messianiche in una rigenerazione finale del mondo denotano anch'esse un atteggiamento antistorico. Poiché non si può più ignorare o abolire periodicamente la storia, l'ebreo la sopporta nella speranza che stia per cessare definitivamente in un momento più o meno lontano. L'irreversibilità degli avvenimenti storici e del tempo viene compensata dalla limitazione della storia nel tempo.»*
La storia quindi diviene un qualcosa di tangibile con cui dover fare i conti, un tempo che segna una marcia forzata verso la “liberazione” finale. Si considerino le guerre e le calamità, che nel corso della storia hanno flagellato i popoli, e a come il pensiero più tradizionale (in quanto il pensiero moderno esclude ormai il ruolo di Dio) interpreti tali eventi come “punizioni divine” atte a favorire, nella sofferenza, la fine dei tempi.

Nell’induismo principalmente, ma anche molte altre culture affini, il tempo mostra una ciclicità che prevede periodiche rigenerazioni attraverso le distruzioni dell’umanità ma anche un’idea di vita che mette al centro le proprie azioni e dunque il karma. Tale concezione mostrerebbe un rifiuto della storia, essendo la tensione per lo più protesa verso un tempo pre-tempo o illo tempore. Tuttavia tale approccio viene contestato da René Guenon il quale afferma giustamente che la storia mantiene sempre un ruolo, soprattutto nelle culture cicliche. 
Nell’interpretazione ciclica si prevedono quattro epoche o Yuga che seguono un ordine decrescente sia in termini di durata che di qualità. L’età dell’oro è considerata come l’epoca di massimo splendore per gli uomini i quali avrebbero vissuto un’esistenza molto spirituale e a contatto con le divinità. Ciò consentiva loro anche di possedere delle capacità superiori sotto tutti i punti di vista e persino una durata della vita molto maggiore. A seguire si giunge all’età dell’argento, del bronzo e del ferro. L’avanzamento di queste età prevede una progressiva discesa della materialità e un conseguente distacco dalla spiritualità originaria. L’epoca attuale è definita come kali-yuga o età del ferro, l’epoca di maggior caduta e sovvertimento dell’ordine tradizionale delle cose. Per questa ragione l’avanzamento della storia assumerebbe una connotazione negativa, essendo considerata come un allontanamento ulteriore dall’età dell’oro. Ma non solo, se nella visione del tempo lineare la storia va “sopportata”, nel tempo ciclico subentra anche l’idea di un “destino storico” (essendo la propria esistenza inquadrata all’interno di un’era oltre che di un karma) un destino che incombe sull’individuo e sull’umanità intera. Pertanto l’uomo induista vede le vicende di vita come un mezzo per la sua elevazione individuale, ma non può fare altro che assistere all’inevitabilità del declino nel kali-yuga. Tale “pessimismo” o mito della caduta accompagna un po’ tutte le culture, anche le più prossime come quelle ellenistico-orientali che consideravano la propria epoca come di decadenza rispetto alla precedente. Platone ad esempio, richiamandosi ad influenze orientali, parlava anch’egli di un’età dell’oro da cui l’umanità si sarebbe distaccata.


ouroboro
L'ouroboro, il serpente che si morde la coda,
il simbolo del tempo circolare

A fronte di questa dicotomia interpretativa possiamo affermare che l’interpretazione prevalente del tempo nella nostra società sia lineare grazie ad una tradizione giudaico-cristiana che vede nell’avvenire la ricompensa alla vita stessa. Pertanto più va avanti il tempo, con tutti i problemi e le sofferenze che ciò comporta, e più ci si avvicina all’agognata fine dei tempi. In questa strutturazione risiede la ragione per cui si interpreta, secondo una chiave quasi fideistica, l’avanzamento della storia in termini sostanzialmente positivi. I successi della tecnica vengono salutati come l’espressione massima del progresso, così come l’evoluzione dei costumi e delle mode che seguono uno “spirito del tempo” seppur intrisi di mille contraddizioni. Se dunque ci si guarda indietro si percepisce l’uomo del passato come più semplice, primitivo e soggetto alle superstizioni e a un’interpretazione del mondo assolutamente “arretrata”. Da qui scaturisce una secolarizzazione che incorpora il rifiuto delle tradizioni e l’esigenza di superarle per vincere, una volta per tutte, le stantie regole del passato considerate troppo rigide e persino fanatiche.

A sostegno della visione del tempo lineare rientrano anche le ottime intuizioni di Jeremy Rifkin nel suo libro Civiltà dell’empatia** dove mostra come il progresso dell’uomo sia coinciso con un aumento dell’empatia, tale da modificare l’approccio generale dell’uomo alla vita. Possiamo in effetti affermare che l’uomo contemporaneo abbia perso molte delle attitudini del passato, proprio perché la sua empatia è cresciuta nel tempo. Oggi è certamente più difficile immaginare un Occidentale che uccida un altro uomo in un corpo a corpo, la guerra infatti è divenuta sempre più distaccata, proprio per non suscitare eccessi di empatia sugli altri. Sono così nati i droni che uccidono le persone come in un videogioco, allontanando l’operatore dalla sofferenza del suo gesto, limitando nel contempo gli effetti collaterali (in termini psicologici) di ciò che compie. Ciò significa che non vi sono più individui disposti ad infliggere sofferenze al nemico? Certamente sì, ma la reticenza a degli atti di violenza vissuta in primo piano sono un fattore sempre meno possibile, tanto che in Arabia Saudita negli ultimi anni faticano a trovare dei boia per le pubbliche esecuzioni. 
Nessun soldato al giorno d’oggi si immolerebbe per la patria, come un tempo facevano gli eroi romani e greci. Allo stesso modo nessuno mangerebbe della carne di maiale dopo aver assistito alla macellazione, oppure all’abbattimento di un pollo o una mucca. Sono subentrate persino delle legislazioni che tutelano la vita e il comfort degli animali domestici quando il passato la loro vita non valeva nulla. Tutto ciò è assimilabile ad un progresso, così come il miglioramento delle condizioni di vita in senso generale e l’emersione di molte popolazioni da esistenze primitive a esistenze sempre più “normali”.

Ci sono tuttavia dei fattori che il progresso tende ad ignorare proprio perché si è concentrati su altri indicatori di avanzamento. Rispetto al passato l’uomo ha perso molte abilità, la tecnologia ci atrofizza la mente, sempre meno abituata ai calcoli mentali, alla memorizzazione e persino alla capacità di concentrazione. Il male di quest’epoca va di pari passo con l’introduzione pervasiva degli smartphone i quali stanno rendendo le nuove generazioni prive delle capacità basilari di ragionamento e riflessione. La velocità con cui la società si muove, lo sviluppo di internet, dei social network e di tutto il mondo virtuale, stanno ampliando visibilmente il numero dei cosiddetti analfabeti funzionali. I dati sono davvero sconfortanti, secondo un recente studio norvegese si è potuto appurare un netto calo del quoziente intellettivo nel corso degli ultimi 50 anni. Ciò significa che l’intelligenza media di un individuo di 40 anni fa era più alta rispetto a quella di oggi. Così accade che si tende ad evitare di leggere un libro intero perché noioso, se non addirittura faticoso, rendendo le nuove generazioni incapaci di un pensiero complesso, proprio per l’assenza di tutti i fattori base dell’intelligenza: capacità di concentrazione, impegno, analisi, memorizzazione di fatti e concetti e via discorrendo… Tutto ciò mi ricorda il contenuto del film Idiocracy nel quale si ipotizzava un futuro distopico in cui, tra un migliaio di anni, il numero degli individui con quoziente di intelligenza basso avrebbe superato di gran lunga quello con maggiore intelligenza causando il tracollo della società. 


La distinzione tra le due interpretazioni del tempo e della storia sembra trovare dei riscontri focalizzandosi su fattori diversi atti a giustificare la propria visione. Se come detto l’Occidentale porterebbe a sostegno delle sue tesi i fattori più tangibili in merito al progresso, l’Orientale potrebbe tranquillamente affermare che il kali yuga sia proprio l’espressione di quei fattori enfatizzati dall’Occidente stesso e nel contempo l’allontanamento dalle tradizioni e da una vera spiritualità. Le due interpretazioni non possono comunicare, proprio come un dialogo tra sordi dove l’uno non è in grado di comprendere l’altro. 

Tuttavia è necessario dire quanto l’attuale visione Occidentale mostri evidenti limiti di comprensione delle società stesse e della loro attuale disgregazione. Si prendano ad esempio le continue stragi americane per cui un soggetto disadattato prende un’arma da fuoco e spara all’impazzata contro gente inerme. Per noi europei è evidente l’associazione tra l’accesso troppo semplice ad un’arma da fuoco e le stragi, ragione per cui sarebbe opportuna una limitazione nella distribuzione. Ma non solo, si ignora il fatto che i casi di disturbo mentale, depressione e ansia nella popolazione americana siano in netto aumento già da parecchi anni. Il sistema americano stesso, votato al materialismo sfrenato produce isolamento, divorzi e un aumento delle famiglie disgregate che fanno a sua volta crescere figli ancor più sofferenti. Così il paese più avanzato al mondo si dimostra malato e incapace di affrontare il futuro con serenità. Ma si continua focalizzarsi soprattutto sui trend produttivi, sul PIL e sulla capacità tecnologica del paese, valutando solo con questi parametri la presunta modernità degli USA
Gli stessi problemi, anche se in forme diverse, sorgono in altre società prosperose del mondo, si veda ad esempio il Giappone che vive da anni la crisi di bassissimi tassi di natalità e un aumento delle esclusioni sociali. Ma anche i paesi scandinavi non se la passano bene, per non parlare dell’avanzamento impetuoso della Cina e di tutte quelle forme socialmente disgreganti che si manifestano con preoccupante rapidità. Appare paradossale invece confrontarsi con le società che oggi definiamo più arretrate, quelle dove la modernità fatica a fare irruzione, seppure s’insinua nella seduzione dei telefonini e della TV. In questi paesi tutti i problemi descritti non esistono, esistono semmai le difficoltà igienico sanitarie, l’assenza di infrastrutture e il basso reddito di vaste sacche delle popolazione. 

Forse la descrizione della storia andrebbe valutata con un occhio meno parziale, tale da includere i troppi aspetti che il nostro essere Occidentali tende ad escludere. Ma è anche vero che l’accettazione anche parziale di un’interpretazione ciclica del tempo in caduta verso il kali yuga necessiterebbe di un sostrato culturale che incorpori dei fattori di responsabilità individuale un po’ troppo difficili da accettare. Lo spirito cattolico moderno, intriso di quei dogmatismi criticati da Dostoevskij, ci deresponsabilizza rispetto agli Orientali, di fronte a noi stessi e alla divinità, poiché il male non deriverebbe dalle nostre azioni ma dall’incomprensibilità delle scelte divine lasciandoci la sola possibilità di sopportare questo amaro calice che è l’esistenza. Per la grande schiera degli atei e agnostici gli eventi non hanno una spiegazione possibile, semplicemente accadono. Ma anche essi paiono immersi in questa incapacità collettiva di comprendere la storia sotto le varie sfaccettature. 

C’è da dire che in fondo le società umane sono pervase da un’impronta indelebile della coscienza collettiva che incasella le scelte individuali nell’alveo generale del proprio ambiente culturale. Solo attraverso un processo di crescita interiore si può acquisire una reale autonomia di pensiero e valutare con elementi più obiettivi tutti quei fattori che costituiscono le ragioni dell’attualità storica. Valutare gli eventi tra un tempo lineare o uno ciclico, o magari integrare parte di entrambe le visioni può aiutarci a sfuggire alle limitazioni che l’incasellamento culturale ci sta imponendo gioco forza. Ma ciò richiederebbe un ruolo attivo dell’individuo, così tutto torna inevitabilmente alla questione di partenza: ad una percezione del tempo esclusivamente lineare e ad un’autoassoluzione del proprio ruolo individuale sul destino nel mondo.


*Mircea Eliade, Il mito dell’eterno ritorno, p. 144, Edizioni Borla.
**Jeremy Rifkin, Civiltà dell'empatia, Mondadori




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