“Let them bloom or let them die – it’s all the same:
cherry trees on mount Yoshino” (Rekisen)
Un nuovo sguardo sull'arte - Arte Laguna Prize. Arrivato alla sua 13a edizione, il concorso, allestito all’interno degli spazi dell’Arsenale di Venezia, ha visto la partecipazione di artisti nazionali ed internazionali che si sono presentati con oltre 120 progetti divisi per sezioni: pittura, arte fotografica e fotografia digitale, sculture e istallazioni/arte virtuale, video arte e performance, arte ambientale e arte urbana, design.
Abbiamo avuto il piacere di conoscere la photographer e visual artist Silvia Montevecchi che con il suo progetto Jisei no ku ha ottenuto il premio assoluto nella categoria “Arte fotografica e arte digitale”.
Giappone, poesie, morte: un connubio interessante. Raccontaci dell’incontro tra te e Jisei no ku
Questo progetto è nato quando studiavo alla L.A.B.A. (Libera Accademia di Belle Arti) di Firenze. Parlando con una professoressa di alcune fotografie che le avevo mostrato, lei mi disse che le facevano pensare a delle poesie e mi venne in mente una forma poetica che mi aveva sempre incuriosita, cioè l’haiku. Allora ho iniziato a informarmi a riguardo e leggendone alcune mi sono resa conto di quanto mi ricordassero la fotografia; trovo particolarmente affascinante quando qualcosa che ha richiesto tempo, dedizione e attenzione a ogni particolare sembra essere stato eseguito con un semplice, rapido gesto, ed è una caratteristica che credo si riscontri sia negli haiku che nella fotografia. Durante le mie ricerche mi sono imbattuta in un genere poetico di cui non ero a conoscenza e in cui l’haiku è una delle forme più usate: lo jisei no ku.
Si tratta di poesie della tradizione giapponese che venivano scritte principalmente da samurai, monaci e poeti nel momento in cui percepivano l’approssimarsi della morte. Sono ultime parole che però non fanno riferimento alla vita trascorsa, non evocano ricordi con nostalgia ma esprimono un ultimo sguardo sul mondo.
Solitamente all’interno degli jisei no ku è presente un “kigo”, cioè la citazione di un elemento della natura simbolico della stagione in cui la poesia è stata composta (ad esempio la luna per l’inverno e il susino in fiore per la primavera); quindi ognuno di questi componimenti fa riferimento alla natura alla quale l’autore, morendo, fa ritorno. Si tratta di elementi quasi scontati nella quotidianità, ma che in punto di morte rivelano agli occhi dell’autore una bellezza alla quale prima non faceva caso, e penso che la presenza di questi riferimenti faccia sì che gli jisei no ku siano in sostanza evocazioni di immagini.
Credo che queste poesie rappresentino perfettamente gli ideali estetici della tradizione giapponese, che esaltano una bellezza discreta, legata alla natura e a tutto ciò che è transitorio, nel rispetto di una visione della vita come un flusso costante di trasformazioni che si susseguono in uno scorrimento senza fine.
Inoltre ho trovato estremamente interessante questo modo di rappresentare il momento della morte, senza impeto tragico, senza lacrime o cuori spezzati, ma attraverso il vento, un fiore che inizia ad appassire o una distesa di neve.
Tutto ciò mi ha colpita profondamente e per questo ho deciso di creare una serie di fotografie ispirate agli jisei no ku.
“I give my name back as I step i
this Eden of flowers”. (Inseki)
I tuoi scatti si fondono nella natura onirica della tua tecnica spesso al confine con la realtà. Qual è il messaggio che vuoi lanciare attraverso questa forma di comunicazione?
La natura spesso onirica delle mie fotografie è per me una scelta espressiva, è un modo per rendere reali quelle immagini che si formano in maniera quasi spontanea nella mente.
C’è un grande senso di libertà nel dare vita a qualcosa che prima esisteva solo nell’immaginazione.
Il fatto di concedersi un distacco dal reale consente allo spettatore di “sbirciare” nella fantasia dell’autore, e credo sia un’esperienza interessante per entrambe le parti. Penso che le immagini che rimandano a una dimensione onirica siano in grado di sussurrare qualcosa di speciale al subconscio di chi le guarda.
Inoltre trovo che sia particolarmente interessante quando questo distacco dalla realtà avviene in fotografia, un mezzo così profondamente legato alla riproduzione e documentazione del reale.
Decidi di dar vita alle tue creazioni scegliendo scenari che si legano alla storia della tua vita. Cosa suscita in te questo legame?
Quasi tutte le fotografie di Jisei no ku sono state scattate in una zona che conosco molto bene, nei dintorni in un piccolo paese dell’Appennino tosco-romagnolo di cui è originario mio padre. È un luogo con cui sento un forte legame, e la realizzazione di questo progetto mi ha permesso di viverlo più a fondo, di esplorarne i paesaggi circostanti con uno sguardo nuovo e più attento, di tornare in luoghi legati ai miei ricordi d’infanzia e di scoprirne di nuovi. Ho voluto studiarli, osservarli nelle diverse stagioni e notarne i cambiamenti per poterli fotografare in modo da evidenziarne le caratteristiche che volevo emergessero. Il fatto di viverli in questo modo mi ha fatto sentire ancora più legata a essi, me li ha fatti conoscere e amare così tanto che sto continuando a fotografarli, anche se in maniera un po’ diversa, per un nuovo progetto a cui sto lavorando.
“Plum petals fallingI look up… the sky,a clear crisp moon”. (Baiko)
Punti di svolta. C’è un’esperienza in particolare che ha indirizzato il tuo percorso lavorativo?
Direi di sì, anche se risale all’inizio della mia formazione. Quando ero al secondo anno alla L.A.B.A., dove ho studiato fotografia, un professore ci chiese di realizzare un progetto fotografico basato sull’autoritratto. All’inizio l’idea di puntare l’obiettivo su me stessa mi spaventò, ma lavorare a quel progetto mi ha dato modo di capire per la prima volta quanto è ampio il ventaglio di possibilità espressive che la fotografia può dare. È una presa di coscienza piuttosto banale, ma per me è stata importante perché mi ha fatto comprendere che posso lasciarmi andare e farmi coinvolgere emotivamente dalla fotografia, che attraverso il mezzo fotografico posso esprimermi apertamente, e dire cose che farei fatica a trasmettere in altro modo.
Riflettere la propria anima in una fotografia. Come mai decidi di utilizzare il “self-potrait” come forma di rappresentazione?
In altri progetti ho utilizzato l’autoritratto come strumento per indagare sulla mia interiorità e cercare di esprimerne degli aspetti. Rivolgere l’obiettivo su noi stessi può rivelarci molte cose su chi siamo e aiutarci a mostrarlo agli altri. Ma per quanto riguarda Jisei no ku il motivo della mia scelta di usare questa modalità di rappresentazione è stato diverso. Dal punto di vista del messaggio che le immagini di questo progetto esprimono non ha importanza chi vi è raffigurato, ma trovo che fotografare se stessi in relazione a un tema consenta di creare un legame molto profondo con ciò che si vuole esprimere. Vivere tutti i possibili aspetti del progetto a cui stavo lavorando mi ha permesso di comprenderlo meglio e di sentirmi ancora più coinvolta in esso. Inoltre il fatto di creare un’interazione tra il mio corpo e il paesaggio mi ha dato l’occasione di sperimentare un tipo di contatto con la natura molto particolare e che forse, altrimenti, non avrei mai provato.
Un’arte in continua evoluzione. Che cos’è oggi la fotografia?
In effetti credo che questo la descriva bene: continua evoluzione, costante trasformazione. Penso che non si possa dare una definizione precisa della fotografia al giorno d’oggi, perché è qualcosa di talmente vivo e multiforme che tracciarne i confini è praticamente impossibile.
Tra l’utilizzo di nuove tecnologie, la diffusione di uno sguardo sempre più aperto alla multimedialità e il fatto che i confini sia tra i generi fotografici che tra le varie forme d’arte si fanno sempre più labili, la fotografia è così eterogenea che è davvero difficile individuarne i limiti.
Ringraziamo Silvia per averci coinvolto in questa sua esperienza di vita. Le auguriamo di portare avanti i suoi progetti, che grazie al suo talento, trasmettono agli spettatori una tecnica innovativa che non intralcia ma è equilibrata alle riflessioni profonde dell’artista.
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