«Parlo con Paul Auster?»«Qui non c’è nessuno che si chiami così.»
Inizia così il nodo gordiano che aggroviglia e impiglia il lettore al racconto di Paul Auster Città di vetro, primo dei tre racconti che compongono Trilogia di New York.
Chi alza la cornetta è Daniel Quinn, scrittore di gialli, ma solo per denaro, perché la vena artistica l’ha persa in un incidente che nessuno vuole raccontarci.
Ha perso anche la moglie e il figlio e questo vuoto sembra essere il primo palazzo di vetro che Quinn abita senza volerlo.
Lo chiamano nel cuore della notte, vogliono un certo Paul Auster, investigatore. Parte da qui l’impiccio che fa del romanzo, più che una mera prova di metaletteratura, una chiave di lettura della nostra condizione umana.
La storia ci sposta ben oltre le nostre capacità cognitive che ogni giorno adoperiamo, chi più chi meno, per decifrare la realtà che ci circonda e di cui ce ne disfiamo, poi, a tarda sera, per poter dormire meglio.
Daniel Quinn, però, non dorme e non dobbiamo dormire neanche noi, che dal secondo capitolo in poi abbiamo deciso di seguirlo, costi quel che costi, come fanno i giornalisti che s’aggrappano a una storia pericolosa e non la mollano più, per amore per il mestiere e perché bisogna passare il testimone. Quinn accetta il caso: Peter Stillman è in pericolo. È un ragazzo selvaggio. Imprigionato dal padre, che si chiama Peter Stillman anche lui.
Ci appare ormai chiaro che Auster sta giocando con i doppi e a forza di duplicare e duplicare, sdoppia anche noi, che dalla condizione in cui siamo, esseri di carne e ossa, ci ritroviamo complici e inseguiamo Quinn in una dimensione a noi sconosciuta.
Niente costa niente e anche noi pagheremo le conseguenze, quelle di chi legge, partecipa e diventa testimone di cultura.
A un certo punto leggiamo:
«Adesso Quinn non era in nessun luogo. Non aveva niente, non sapeva niente. Non soltanto era stato rimandato alla partenza; ora si trovava prima della partenza, in un punto così antecedente alla partenza da essere peggio di qualunque arrivo immaginabile.»
Tutto si attorciglia, tutto si snoda e Auster lo fa attraverso la lingua e l’uso che ne fa di essa nella praticità della scrittura.
Città di Vetro sembra un gioco di scatole cinesi e quando sembriamo trovare finalmente il capo e la coda del filo, ecco che tutto si attorciglia ancora, più di quanto crediamo sia possibile.
Ed è forse questo che succede quando i fatti si inabissano, puzzano di menzogna e siamo costretti a vivere in una duplice verità?
Infine non rimane che la città, intesa come luogo di segni e linguaggio, in cui l’uno e l’altro diventano palazzi e strade da attraversare, guidati dalla macchina dell’interpretazione. La città è il testimone, siamo noi dall’altra parte dello specchio. La città è il nostro doppio, che ci piaccia o no.
Alberto Minnella
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