Nembròt, Fialte e Anteo |
Leggendo l’Inferno, tra i molti incontri che Dante fa lungo il cammino, due probabilmente vengono ricordati in modo particolare; due personaggi che pronunciano un’unica frase in apparenza incomprensibile e priva di significato. Il primo di essi è Pluto, figura della mitologia classica, dio greco della ricchezza, il cui celebre grido “Pape Satàn, pape Satàn aleppe!” apre il VII canto. Il secondo è Nembròt, imprigionato nel pozzo dei giganti al canto XXXI e ricorrente nella Commedia, essendo nominato anche nel Purgatorio e nel Paradiso. Egli sarà personaggio centrale per Dante, in quanto si fa portatore di due temi fondamentali per il Poeta, uno etico e l’altro linguistico.
Nella Bibbia, Nembròt viene presentato in Genesi 10, 8-12 come “Nemrod robustus venator coram Domino” (Nimrod, valente cacciatore davanti al Signore), figlio di Chus, discendente di Cam dopo il diluvio. Egli diviene potente, e regna nella regione di Sinar, la Mesopotamia; il suo regno comincia con Babele, Uruc, Accad e Calne, per poi spostarsi verso Assur e fondare lì le città di Ninive, Recobòt-Ir, Calach e Resen.
Ora, mentre il passo della Vulgata riporta la descrizione di Nembròt come “robustus venator”, la versione dei Settanta riporta “gigans venator contra Dominum Deum” (gigante cacciatore contro il Signore Dio), passo ripreso anche da Agostino nel De Civitate Dei:
“Propter hoc dicunt: Sicut Nebroth gigans venator contra Dominum”
(per questo diciamo: come Nembròt, gigante cacciatore contro Dio) (libro XVI, c. III).
Il re viene poi tradizionalmente coinvolto nella costruzione della torre di Babele, sebbene, in realtà, non ve ne sia riscontro nel testo biblico. Egli è descritto sì come il fondatore di Babilonia, che significa “porta di Dio” acquisendo poi, però, l’accezione di “confusione”, ma non si accenna al desiderio di costruire la torre simbolo della superbia umana e della sfida a Dio. Probabilmente, la vicinanza dei passi della Genesi che narrano di Nembròt e della torre babelica ha fatto sì che potesse fiorire questa tradizione, e Nembròt diviene colui che contribuisce alacremente, e vuole, la realizzazione di una costruzione che tocchi il cielo.
Ancora nel De Civitate leggiamo:
“Ista civitas, quae appellata est confusio, ipsa est Babylon, cuius
mirabilem constructionem etiam gentium commendat historia. […]
Unde colligitur, gigantem illum Nebroth fuisse illius conditorem […]
Erigebat ergo cum suis populis turrem contra Deum, qua est impia
significata superbia” (libro XVI, c. IV).
(Questa città, che è chiamata confusione, è Babilonia, e anche la
storia profana ne esalta la grandiosa costruzione […] Si deduce che il
suo fondatore fu il gigante Nembròt […] Erigeva dunque, con le sue
genti, una torre contro Dio da cui è simboleggiata l’empia superbia).
La superbia umana è punita da Dio, che impedisce la costruzione sia ultimata e pone negli uomini diversi linguaggi in modo che non si comprendano più tra loro e si disperdano nel mondo.
Dante conosce bene l’esegesi delle Scritture, e, in particolar modo, la confusione babelica delle lingue causata dalla superbia di Nembròt è un passaggio fondamentale in De Vulgari Eloquentia I, VII, 4:
"Praesumpsit ergo in corde suo incurabilis homo, sub persuasione gigantis Nembroth, arte sua non solum superare naturam, sed etiam ipsum naturantem, qui Deus est, et coepit aedificare turrim in Sennaar, quae postea dicta est Babel, hoc est confusio, per quam coelum sperabat ascendere, intendes inscius non aequare, sed suum superare Factorem."
(Ardì dunque in cuor suo l’uomo incorreggibile, sotto lo stimolo del gigante Nembròt, di superare con la sua arte non solo la natura, ma anche il suo stesso creatore, che è Dio; e cominciò a costruire una torre in Sennaar, che fu poi chiamata Babele, cioè confusione, attraverso la quale sperava di raggiungere il cielo, intendendo, folle, non giungere al suo Fattore, ma superarlo)
In questo passo ben si comprende come Nembròt divenga simbolo della sfida a Dio, non solo per la volontà di egugliarLo, ma per quella di oltrepassarLo. Si avverte già la descrizione del gigante che tornerà nella Commedia, macchiato del grave peccato di superbia, lo stesso peccato di Lucifero; nelle pagine della Glossa ordinaria vi è un chiaro riferimento all’equiparazione di Nembròt con il demonio:
“Nemroth, qui ultra naturam celum penetrare voluit, significat dyabolum, qui ait: ascendam super astra celi”
(Nembròt, che volle penetrare il cielo sovrannaturale, significa diavolo, che afferma: salirò sulle stelle del cielo).
Nell’Inferno, infatti, il pozzo dei giganti demarca l’ingresso nell’ultimo cerchio, l’accesso alla zona ghiacciata di Cocíto dove risiede il demonio. Dante e Virgilio stanno avanzando nella penombra, è presente solo una debole luce; si sente un suono di corno, il Poeta guarda nella direzione da cui il suono proviene e gli sembra di scorgere delle torri: “Poco portäi in là volta la testa,/che me parve veder molte alte torri” (Inf. XXXI, 19-20). In realtà, ciò che si scorge nel buio e nella nebbia non sono torri, ma i giganti immobili Nembròt, Fialte e Anteo, come prontamente spiega Virgilio ai versi 29-31:
e disse: «Pria che noi siam più avanti, acciò che ’l fatto men ti paia strano,
sappi che non son torri, ma giganti
L’associazione torri/giganti richiama con forza nuovamente l’episodio della Torre di Babele, e acquista così centralità la figura di Nembròt, che fra i tre giganti presenti è colui a cui è data maggior attenzione. Il suo esordio è potente, fortemente simbolico, così come la spiegazione che di esso dà Virgilio subito dopo:
«Raphèl maì amècche zabì almi»,
cominciò a gridar la fiera bocca,
cui non si convenia più dolci salmi.
E ’l duca mio ver’ lui: «Anima sciocca,
tienti col corno, e con quel ti disfoga
quand’ira o altra passïon ti tocca!
Cércati al collo, e troverai la soga
Che ’l tien legato, o anima confusa,
e vedi lui che ’l gran petto ti doga».
Poi disse a me: «Elli stessi s’accusa;
questi è Nembrotto per lo cui mal coto
pur un linguaggio nel mondo non s’usa.
Lasciànlo stare e non parliamo a vòto;
ché così è a lui ciascuno linguaggio
come ’l suo ad altrui, ch’a nullo è noto»
(Inf. XXXI, 67-81)
Sulla frase urlata da Nembròt la critica si è spesa molto, anche se non può esservi assoluta certezza. La lingua usata dal gigante è impossibile da comprendere, un perfetto contrappasso per colui che con il suo peccato ha provocato la confusione delle lingue. A questo proposito, è rilevante ciò che Domenico Guerri scrisse in un suo studio, cioè che Dante non avrebbe potuto porre sillabe a caso solo per rappresentare l’incomprensibilità del gigante. L’ipotesi è che la frase di Nembròt abbia alla base termini ebraici, sebbene assai modificati. Dante non conosceva la lingua ebraica, ma poteva servirsi della Vulgata e delle voci ebraiche lì riportate.
E quelle che più chiaramente richiamano il verso sono: “Raphaim man amalech zabulon alma”.
I termini sono così interpretati da san Girolamo: “Raphaim” come gigantes, “man” con quid, “amalech” come populus lambens, “zabulon” come habitaculum, “alma” come sacra, excelsa. Si potrà avere questo risultato: “gigantes! quid est hoc? populus lambens habitaculum sancta” la cui traduzione può essere “giganti! che è questo? gente lambisce la dimora santa” il cui senso sarebbe avallato in quanto corrisponde al lamento degli altri guardiani infernali, dunque la proposta di Guerri è pienamente accettabile.
Subito dopo il suo grido, viene specificato che alla bocca del gigante non si confanno salmi più dolci, il che è detto con ironia, essendo il salmo la preghiera per antonomasia, dunque per nulla consona alla feroce bocca di Nembròt.
Virgilio poi lo riprende definendolo anima sciocca/anima confusa, sempre in riferimento alla confusione babelica, sciocca per superbia, confusa per la conseguenza del suo peccato; il poeta lo invita a tacere, a sfogarsi suonando il suo corno e accontentarsi di quello quando è toccato dalle passioni o dall’ira. L’ira è comune ai demoni infernali, mentre le altre passioni che caratterizzano il male sono, seguendo ciò che Tommaso d’Aquino scrive nella Summa theologiae (II, II, q. 127, a. 1), odio, invidia e audacia. Virgilio seguita poi a indicare al gigante come trovare il suo corno, pendente sul petto e assicurato a una striscia di cuoio, così come lo si spiegherebbe a chi non ha pieno possesso delle facoltà mentali. Si rivolge poi a Dante e gli rivela che quel gigante è Nembrotto, e che si accusa da se medesimo, il suo linguaggio incomprensibile ne è la prova; a causa del suo mal coto, da “coitare”, derivato dal latino “cogitare”, cioè del perverso pensiero di costruire la torre, non si utilizza più un solo linguaggio nel mondo. Infatti, secondo le Scritture, prima della costruzione della torre, nel mondo gli uomini parlavano una sola lingua.
Virgilio poi comprende che è inutile rivolgere la parola al gigante, che tanto non capirebbe; gli è eternamente impedita ogni forma di comunicazione, in quanto egli non comprende alcun linguaggio (a differenza di Pluto), e il suo a nullo è noto.
Icona nel poema dantesco, ed unico personaggio a comparire in tutte e tre le cantiche, Nembròt torna nel Purgatorio. Siamo nel canto XII, l’ultimo dedicato alla cornice dei superbi, e Dante e Virgilio camminano su un pavimento istoriato dove sono rappresentate scene di superbia punita. La prima scena illustra la caduta di Lucifero, poiché lui fu il primo a compiere atto di superbia, mentre alla quarta torna il gigante:
Vedea Nembròt a piè del gran lavoro
quasi smarrito, e riguardar le genti
che ’n Sennaàr con lui superbi fuoro.
(Pg. XII, 34-36)
Nembròt contempla la torre, la sua opera, con occhi persi, confuso interiormente, mentre guarda con altrettanto smarrimento coloro che, come lui, tentarono follemente di innalzare la costruzione.
Infine, il re biblico compare nei versi del XXVI canto del Paradiso. Dante è nel cielo delle Stelle fisse, e il canto celebra la carità, terza virtù teologale. Appare Adamo e risponde a quattro domande di Dante, e l’ultima risposta è quella che più interessa al Poeta, in quanto riguarda il linguaggio:
La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
innanzi che a l’ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta
(Pd. XXVI, 124-126)
Adamo spiega che la sua lingua già era persa prima che i babilonesi tentassero di erigere la torre; Nembròt torna per la terza volta, con l’immagine della fallita costruzione qui definita incosummabile, poiché non poteva essere consumata, cioè ultimata, essendo nulla la superbia umana rispetto alla potenza divina.
Nella Commedia, Nembròt è associato a Lucifero, come d’altronde lo è nella tradizione esegetica a cui Dante guarda; del gigante viene portata in rilievo la bestialità che ormai lo caratterizza, e il robustus venator è diventato bestia al pari delle sue prede, tanto che il fiato è meglio lo utilizzi per suonare il corno da caccia piuttosto che per parlare, e il suono del corno si sostituisce al linguaggio come atto degradante.
Si giunge così a interpretare Nembròt come una vera e propria figura diaboli, colpevole di quel peccato che in ottica cristiana è rifiuto della legge divina, momento in cui l’anima si allontana dal suo creatore; Dante lo descrive allora come forte di fisico ma debole di mente, e utilizza la sua immagine come monito alla superbia, il suo linguaggio come mostruosità insita nell’anima.
Bibliografia
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- BENINI R., Dante tra gli splendori de’ suoi enigmi risolti, Roma, A. Sampaolesi, 1919.
- CASTELLANA R., Nembrot figura diaboli. La «mimesi figurale» nella Commedia, in «Rivista di Studi Danteschi», VIII, 2, 2008, pp. 328-340.
- FALZONE P., Inferno XXXI. Antecedenti scritturali e fonti filosofiche della raffigurazione dantesca dei giganti, in Lectura Dantis Romana. Cento canti per cento anni, I. Inferno, 2. Canti XVIII-XXXIV, a cura di E. Malato, A. Mazzuchi, Roma, Salerno, 2013, pp. 961-987.
- GUERRI D., La lingua di Nembrot (Inf. XXXI, 67), in ID., Scritti danteschi e d’altra letteratura antica, a cura di A. Lanza, presentazione di G. Pampaloni, Anzio, De Rubeis, 1990, pp. 21-38.
- LAZZERINI M., Dalla parola al silenzio. La lingua dei diavoli nell’Inferno di Dante, prefazione di Giorgio Bárberi Squarotti, introduzione di Barbara Zandrino, Roma, Fermenti, 2010.
- RAFFI A., Inni, salmi e “voci chiocce”: il paesaggio sonoro dell’“Inferno” di Dante, in «Campi immaginabili. Rivista semestrale di cultura», XLVIII-XLIX/L-LI, 2013-2014, pp. 5-37.
- TOMMASO D’AQUINO, La Somma teologica, testo latino dell'edizione leonina, traduzione e commento a cura dei Domenicani italiani, Bologna, ESD, 1964, 35 voll.
Daniele Villata
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