Vi ricordate i lunghi giorni dell'assedio di Sarajevo? Noi li abbiamo vissuti da questa parte della barricata, ma sarebbe meglio dire da questa parte dello schermo, perché abbiamo semplicemente visto dalla TV e dalle foto ciò che avveniva. La vita da reclusi degli abitanti, l'ansia di chi doveva andare a fare la spesa col rischio d'essere ferito se non ucciso da un cecchino, le corse per evitare d'essere intercettati e poi le stragi del mercato dove una granata maciullava gente inerme. Quelle paure sono distanti, al massimo filtrate dalle immagini drammatiche eppure reali. L'attuale epidemia di Coronavirus sembra configurarsi con una modalità simile. Si resta a casa, ma si deve uscire a fare la spesa o andare al lavoro e si rischia. Si rischia d'essere colpiti da un cecchino invisibile da cui poi si deve cercare di guarire rischiando a volte la vita...
In questa metafora bellica più volte riproposta dai media, coloro che si ammalano e per svariate ragioni finiscono in ospedale per crisi respiratoria vivono una tempesta si ansie e paure. Le difficoltà respiratorie, la paura di diventare la prossima vittima, le difficoltà gestionali all'interno degli ospedali e la respirazione forzata mentre si è soli con noi stessi e le nostre paure. Il video che segue pone l'attenzione su questo aspetto, sulla tempesta emotiva scatenata dai sintomi e dal fatto di sapere che si è ammalati di Covid-19. Ed è proprio il crollo emotivo a fronte della notizia a far precipitare la situazione, la stessa sensazione di coloro che ricevono la notizia di avere un tumore con metastasi:
«Entro al pronto soccorso dell’ospedale di Bergamo, qui sono un’eccellenza penso, mi guariranno. Provati i parametri mi portano via dal Triage in tempo zero. Flebo, ossigeno, prelievi, esame delle urine, emogas e Rx per concludere con il tampone. Sono il numero 425. Nel caos di medici e infermieri si avvicina il dottore che mi dice: "È Coronavirus".
Scoppio a piangere: "Ho tre figli piccoli che hanno perso il padre – gli dico -, salvatemi".»
«Non conto più i giorni. Ricoverano papà e anche mamma. Il mio amico si prende in carico i miei figli. Nel frattempo arrivano continue notizie di decessi, parenti, amici, parenti degli amici e il pensiero si aggrappa all’ipotesi che il virus sia più clemente nei riguardi delle donne e dei giovani. Ho 38 anni, mi ripeto, sono giovane. Prego Dio, lo faccio intensamente, ho paura ma non posso mollare.»Il racconto lucido da cui è tratta la testimonianza deriva da una lettera pubblicata in un giornale di Bergamo, da cui l'autore del video trae lo spunto per riflettere sull'argomento. Un argomento su cui molti dottori stanno lanciando in questi giorni un allarme forte. La necessità di agire rapidamente sotto l'aspetto psicologico, cioè di dare cioè un supporto maggiore a coloro che hanno vissuto (o stanno vivendo) la malattia e ne rimarranno per sempre segnati.
Nessun commento:
Posta un commento