Sin dal primo istante in cui misi piede in Giappone, mi resi subito conto di come le vaste differenze culturali potessero facilmente scadere in una serie di incomprensioni. Le differenze con questo paese sono in effetti parecchie e per questa ragione è necessario conoscere subito le principali le regole comportamentali onde evitare di incappare in forme di gratuita scortesia. Queste regole apparentemente limitanti per la nostra indole, sono in realtà una modalità con cui la società nipponica coltiva una delicata forma di gentilezza che da Occidentali tendiamo a misconoscere. Entrando a contatto con questa cultura, non solo si comprende quanto il nostro approccio verso il mondo circostante e gli altri sia fin troppo spesso grossolano e persino rude, ma consente di apprendere qualcosa che potrebbe migliorare noi stessi e la nostra società. Per questa ragione un viaggio in questo paese, o più semplicemente la possibilità di approfondirne i molteplici aspetti culturali, è un aspetto da non sottovalutare.
Gli oggetti consegnati a due mani
Nel 2013, giunto all’aeroporto di Narita mi sono presentato presso l’ufficio postale dell’aerostazione per ritirare una SIM card con cui avrei mantenuto i contatti col resto del mondo, l’impiegato era un ragazzino molto gentile che si è subito prodigato per cercare la busta in uno degli scaffali e dopo averla trovata me l’ha consegnata porgendomela delicatamente con due mani. In quel semplice gesto, certamente ovvio per un giapponese, ho colto immediatamente tutta la proverbiale cortesia degli orientali. Porgendo con due mani una busta, la carta di credito, lo scontrino, un pacchetto, una posata e quant’altro si possa richiedere si racconta l’importanza del rispetto verso l’altro e la necessaria gentilezza applicata al prossimo. Tale gesto non è l’eccezione in Giappone ma la regola, una regola di buona educazione che plasma una società che, vista dall’Italia (abituati come siamo a ben altri comportamenti), appare semplicemente idilliaca.
L’inchino
Questo aspetto è senza dubbio il più conosciuto e forse la regola che si conosce meglio del Giappone: salutare facendo un inchino. Non c’è solo l’inchino che contraddistingue i giapponesi, ma l’inevitabile gentilezza manifestata in ogni luogo, soprattutto presso le attività commerciali dove c’è sempre qualcuno che vi ripeterà: benvenuti, prego, grazie della vostra visita ecc.
L’inchino viene fatto in generale dal bigliettaio o dal venditore di bibite, quando entra e quando esce dal vagone del treno, e persino dagli addetti alle pulizie quando giunge lo Shinkanzen prima di accedervi e pulirlo in 7 minuti. Questo rituale così carico di rispetto e formalità sembra creare un clima di assoluta serenità verso colui che non si conosce. Se nelle grandi città italiane oltre a non salutarsi si tende anche a ignorare il cliente o il visitatore, in Giappone ciò non è concepibile. In fondo un tale grado di attenzione richiede delle energie che consideriamo inutili ma che spandono una grande positività che predispone il soggetto ad un giusto approccio. Nel nostro maleducato disinteresse invece, alimentiamo senza volerlo un meccanismo di scontroso distacco dagli altri.
La timidezza e il senso della vergogna
Questo aspetto è ben noto e costituisce per molti versi l’essenza e la ragione della simpatia a loro rivolta. Tuttavia ciò non è sempre vero, perché la modernità sta apportando anche un alleggerimento delle abitudini tradizionali e la voglia di scardinarli. Ma è anche vero che questo modo d’essere crea un freno verso tutte quelle forme di eccesso tipiche degli italiani: la spontaneità, la baldanza e l’espansività, ma si aggiunga anche lo spregiudicato e irrispettoso egoismo che spinge a non riconoscere mai d’aver commesso un errore. Il giapponese è l’esatto contrario, è sufficiente un richiamo per far scattare il senso della vergogna e quindi l’immediato rispetto nei confronti del prossimo. Per questa ragione non sono mai necessarie discussioni, litigi e persino zuffe, tipiche della reazione da mancato rispetto. In quanto occidentali, oltre che italiani, l’aver perso il senso della vergogna in ogni occasione ingenera un meccanismo di abbrutimento per cui il senso civico giapponese diventa, ai nostri occhi, qualcosa di ammirevole.
Sentirsi spesso in difetto
Quando si parla con un giapponese non è difficile riceve un “I’m sorry”, in quanto ci si scusa per circostanze per cui noi lasceremmo ampiamente correre. Basta raccontare un proprio inconveniente oppure esternare le difficoltà avute nell’orientarsi all’interno della metro di Tokyo per sentirsi in dovere di scusarsi.
Tutto ciò si ripercuote anche nelle forme con cui i cartelli indicano un inconveniente, con manga atti a mostrare un volto affranto a causa dei lavori in corso, o perché ad una richiesta presso un negozio l’articolo non sia presente. Cartelli di scuse erano presenti persino in quelle attività chiuse a seguito dello tsunami del 2015. Sono note anche le scuse della società dei treni JR per un ritardo di alcuni secondi dei convogli, figuriamoci ciò che avviene da noi!
A questa esagerata puntualità dei mezzi pubblici corrisponde ovviamente la pretesa di dover giungere ad un appuntamento puntuali, in quanto un ritardo di 5 minuti è considerato scortese se non offensivo. Personalmente ho vissuto il paradosso di ricevere le più sentite scuse di una giapponese che era giunta in ritardo a causa del suo autobus bloccato nel traffico!
Mai dire “no”
Vi è mai capitato di chiedere qualcosa ad un amico tramite una chat social e di ricevere un secco no? Per quanto comune questa risposta può essere percepita come brutale. I giapponesi per evitare ciò tendono a circuire la risposta per meglio ammorbidirla. Anche questa regola rientra nel novero di ciò che appare come una fondamentale norma di rispetto verso gli altri: mai essere diretti e spontanei, onde evitare di offendere.
La pulizia
L'associazione tra un giapponese e la pulizia è immediata, non solo a causa del perfezionismo riconoscibile nelle immagini delle città e nei bagni (neanche lontanamente paragonabili a quelli italiani), ma anche riguardo alla pulizia personale. Questo concetto di pulizia è antico e si lega anche alla tradizione giapponese degli onsen, ossia le terme. Sin dai primi contatti tra europei e giapponesi era evidente il differente approccio alla pulizia. Se gli europei si facevano il bagno raramente e spesso coprivano gli odori con profumi, i giapponesi si mostravano già pulitissimi a causa della loro abitudine a frequentare gli onsen tutti i giorni. In ciò rientra poi il moderno approccio al bagno inteso come stanza della casa. Se nelle nostre abitazioni esso è un ambiente freddo perché normalmente ricoperto di ceramica, e ci si va per liberarsi dai solidi dai liquidi da espellere e per pulirsi. Tradizionalmente (perché oggi anche in molte case giapponesi il bagno si è occidentalizzato) esso era rivestito di legno poiché era una stanza da vivere e in cui la famiglia faceva insieme un bagno caldo, secondo una funzione più sociale che igienica.
Un onsen |
Ma non c’è solo la pulizia personale ma anche esterna. Il rispetto verso gli altri unito all’incapacità di uscire dalle convenzioni sociali, il senso estetico onnipresente nella vita quotidiana, determina un’ordine e una pulizia delle città piuttosto estrema. In questo estremismo colpisce il fatto che non esistono né cassonetti né cestini lungo le strade perché il rifiuto lo si porta a casa e lo si getta nel privato.
La solitudine
Il Giappone mostra più di altri paesi l’evidenza di ciò che la modernità spinta all’estremo può comportare. Molti dei problemi ormai riscontrabili nelle società occidentali sono stati anticipati da quella giapponese per cui nelle megalopoli nipponiche, tra routine, orari di lavoro faticosi, eccessiva dedizione e forte competitività è facile perdersi nello sconforto e nella solitudine, se non a volte persino nella disperazione. A tutto questo va unito un carattere prevalentemente introverso che limita i contatti umani, le relazioni sincere e una vera spontaneità. Non a caso nella metropolitana di Tokyo se si osservano i viaggiatori si nota come l’uso prevalente degli smartphone sia legato alla lettura di manga o libri in formato elettronico, all’ascolto di musica e all’intrattenimento tramite videogiochi. Ovviamente c’è anche chi trascorre il tempo chattando con gli amici, ma proprio questo passatempo, molto comune dalle nostre parti, risulta essere numericamente molto inferiore rispetto all’Italia. Da ciò se ne deduce come i rapporti sociali siano meno intensi rispetto a quelli del nostro paese.
E che dire delle possibilità di incontro tra persone? A Tokyo il lavoro è preso molto sul serio, pertanto è difficile far sfociare un rapporto lavorativo in un affetto. Così ci si organizza frequentando delle feste atte a far conoscere i single tra di loro, magari con giochi che favoriscano la conoscenza, superando lo scoglio della timidezza. Di certo il Giappone non è il luogo in cui si va in un locale e si fa amicizia, come avviene in Occidente o in Italia.
Eppoi ci sono gli hikikomori, giovani che scelgono un volontario esilio domestico ma che mantengono un flebile canale con il mondo esterno tramite internet. Questo fenomeno assieme alle tante forme di disagio psichico, come i giovani privi del desiderio di avere un partner se non persino di un rapporto intimo, mostrano come la bassa natalità del paese abbia in queste forme di disagio sociale un aggrovigliarsi di spinte centrifughe che possono condurre anche all’idea del suicidio.
La foresta di Aokigara |
Questa piaga è tristemente famosa nella foresta di Aokigara, nei pressi del monte Fuji, un luogo dove la vegetazione è talmente fitta da far perdere facilmente l’orientamento. Qui molte persone deluse dalla vita, oppure frustrate dall’incapacità di inseguire la forte competizione individuale, scelgono di lasciarsi morire in solitudine.
Aperture e chiusure
Scivoliamo quindi negli aspetti più bui del Giappone, quelli che riguardando la profonda convinzione che lo straniero, il gaijin, sia apportatore di qualcosa di deteriore rispetto alla cultura del paese. Allo stesso modo si desidera che i propri figli non debbano perdere il loro onore unendosi a dei burakumin, ossia un gruppo sociale da sempre stigmatizzato nel paese: un po’ come avviene in India con la casta degli intoccabili, considerata impura e quindi da ghettizzare. Non si pensi che questi fenomeni siano così diffusi, in fondo sono il retaggio di forme tradizionali ancora vive presso le famiglie più tradizionaliste, spesso provenienti dalle zone più remote del paese. Buona parte dei Giapponesi mostra invece una grande apertura nei confronti dell’Occidente e degli Occidentali. Parlare con loro e osservarli nella vita di tutti i giorni evidenzia il paradosso dello svilimento della propria cultura, perché soprattutto le nuove generazioni sembrano aver rigettato le loro radici per abbracciare le mode e i gusti occidentali. Così non è difficile trovare un artista di strada che al parco Yoyogi di Tokyo canti a ritmo di rap o balli il rockabilly vestendo come Elvis Presley. Per non parlare della sempre più diffusa abitudine di fare colazione con un cappuccino da Starbucks o presso un forno che vende pane e croissant francesi. Un po’ come se in Italia si diffondesse l’abitudine di fare una colazione all’americana tra burro di arachidi e uova fritte. Potremmo definirla una sorta di sindrome collettiva che sembra svilire lo splendido retaggio culturale del paese per considerare più interessante, ma soprattutto più seducente, quello più semplice, immediato e banale propinato oltreoceano.
L’assenza di un passato materiale
Un ultimo aspetto degno di nota è il rapporto dei giapponesi con il tempo e la materia. Se nella nostra civiltà diamo molta importanza alla volontà di mantenere memoria di cose e luoghi, tanto da avere in eredità monumenti di 2500 anni ancora in piedi, in Giappone questo rapporto non esiste. I monumenti più antichi del paese risalgono a seicento anni fa e i templi buddisti e scintoisti, anche se eretti in periodi più antichi, in realtà sono delle ricostruzioni. Il fatto stesso di utilizzare il legno per le strutture dei templi esprime il concetto della temporaneità dello stesso. I templi infatti hanno di per sé una durata temporale determinata, raggiunta la quale vengono smontati e ricostruiti. Questa caratteristica non è solo legata all’uso di un materiale deperibile, ma a un concetto ben più profondo di impermanenza. La bellezza per un giapponese è qualcosa di impermamente perché associata all’inevitabilità dei cicli della vita, così anche le città subiscono grandi trasformazioni nel corso degli anni. Gli stessi grattacieli di Tokyo hanno una durata determinata, il che significa che verranno buttati a terra e ricostruiti secondo un ciclo temporale pattuito (70 o 90 anni). Ciò determina il rinnovamento delle città ma anche la messa a norma delle abitazioni, sempre più adatte ad affrontare le calamità naturali e le trasformazioni riguardo agli utilizzi domestici. Per questa ragione le città giapponesi non presentano dei veri e propri centri storici. Non esiste un monumento come il Colosseo o una piazza come quella della Signoria di Firenze o un palazzo storico, al più pochissime città come Himeji conservano un castello originale, scampato alle distruzioni (ai bombardamenti della seconda guerra mondiale) e al tempo: ma sono casi rari. Tutto ciò, se da un lato determina la perdita di contatto materiale col passato, dall’altro mantiene viva l’idea di uno scorrere delle cose fortemente influenzato dalla filosofia buddista.
Il castello di Himeji |
Questi aspetti testé elencati rappresentano parte delle suggestioni ricevute dal paese nel corso di due visite. Essi sono poca cosa rispetto alla complessità e alla varietà di fenomeni ed esperienze possibili in loco. Per questa ragione una visita in Giappone suscita un forte impatto emotivo nel viaggiatore, cambiandolo profondamente da dentro proprio come è avvenuto nello scrivente.
PS: se questo articolo fosse letto da un giapponese, con buona probabilità direbbe che tutto quel che ho scritto è sbagliato, in quanto ciò che noi Occidentali percepiamo dei giapponesi sembra essere fallace. E se non fossero i giapponesi capaci di riconoscere certe caratteristiche proprie che noi, dall’esterno, riusciamo a riconoscere meglio?
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