La storia
Siamo nel 1970 e il cantautore genovese pubblicò il suo quarto album in studio, La Buona Novella. Fonte di ispirazione fu la lettura di alcuni vangeli apocrifi, cioè scritti giudicati non ispirati da Dio da parte della Chiesa e quindi esclusi dal canone biblico.
La lettura di questi scritti – tra i quali Il protovangelo di Giacomo e il Vangelo arabo dell’infanzia – entusiasmarono Fabrizio De André, soprattutto per l’immagine che offrono di Gesù Cristo.
Sì, perché il cantautore fu colpito dalla figura del più grande rivoluzionario di tutti i tempi che con il suo messaggio d’amore e di perdono smascherò la malvagia ipocrisia dei dottori della legge ed «una nuova indulgenza insegnò al Padreterno».
Il Gesù di Fabrizio De André è molto vicino a quello che Pasolini portò in scena nel suo Vangelo secondo Matteo – uscito nelle sale sei anni prima.
Il Messia, sia nell’album che nella pellicola, è colto teneramente nella sua umanità: non è un caso che De André si soffermi sulla nascita e sulla morte del Cristo; momenti questi che accomunano la sua sorte a quella di ogni altro essere umano.
Altro punto è la centralità che riveste il messaggio di Gesù: Faber e Pasolini concentrarono la loro attenzione su quanto predicato dal Nazareno. Non c’è posto per i miracoli compiuti perché la scena deve essere occupata interamente dalla predicazione rivoluzionaria, la Buona Novella appunto, che mostrò compassione e comprensione agli umili e che condannò la falsità degli uomini di potere.
Quando uscì l’album molti attaccarono il cantautore, giudicando anacronistico il suo lavoro: come se De André si fosse completamente disinteressato delle lotte studentesche e politiche che animavano l’Italia degli anni Settanta.
Durante il concerto tenuto al teatro Brancaccio nel 1998, Faber spiegò al pubblico che La Buona Novella non era altro che un’allegoria dei tempi contemporanei: la Giudea biblica fatta di potenti che opprimono non era poi tanto dissimile dall’Italia del Dopoguerra.
La Buona Novella è un grido di speranza per un redentore necessario come Gesù; un uomo rivoluzionario pieno di amore e di furore, che con coraggio si scagliasse contro «il potere vestito d'umana sembianza».
L’immagine di Maria
Faber dedica alla madre di Cristo ben cinque canzoni, quasi la metà dell’album; è il personaggio più delicato e struggente perché è l’immagine dell’oppresso che perde la propria libertà, burattino nelle mani di chi sta in alto.
Maria, come ci viene raccontato nel brano L’infanzia di Maria, viene portata nel tempio dalla madre Anna all’età di tre anni. La bambina passa così le sue giornate lontana dalla famiglia, con la sola compagnia di un angelo che misura «il tempo/fra cibo e Signore».
Maria, contro la sua volontà, viene rinchiusa nella casa del Signore, vedendosi così privata della compagnia della madre e delle sue coetanee; perde la possibilità quindi di poter vivere la spensieratezza della fanciullezza e dell’adolescenza.
«Ma per i sacerdoti/fu colpa il tuo maggio/la tua verginità/che si tingeva di rosso»: all’età di dodici anni Maria viene cacciata dal tempio a causa dell’arrivo delle mestruazioni – la delicatezza dell’immagine creata da questo straordinario poeta!
«E si vuol dar marito/a chi non lo voleva»: ancora una volta Maria non è padrona del proprio destino e della propria libertà, per i sacerdoti deve assolutamente maritarsi con un uomo, Giuseppe, molto più vecchio di lei.
Nel Sogno Maria è al tempio, si addormenta e comincia a sognare di volare sopra la città assieme ad un angelo: solo nel sogno la bambina ha la possibilità di fare ciò che realmente vuole. Eppure il sogno è breve e «sbiadì l'immagine, stinse il colore/ma l'eco lontana di brevi parole/ripeteva d'un angelo la strana preghiera/dove forse era sogno, ma sonno non era/'Lo chiameranno figlio di Dio'/parole confuse nella mia mente/svanite in un sogno, ma impresse nel ventre»
Perfino Dio non è poi tanto diverso dai sacerdoti e da Anna perché “costringe” la piccola Maria ad accettare una gravidanza da lei forse non desiderata.
Maria nella bottega del falegname, assieme alla canzone Tre madri, è la parabola conclusiva della vita di Maria. Sono passati anni, ben 33: Cristo ha percorso la Giudea in lungo e in largo portando con sé lo scomodo quanto rivoluzionario messaggio della Buona Novella.
La madre è nella bottega di un falegname che sta costruendo tre croci: due per Tito e Dimaco, due ladroni, e l’altra, la più grande, sarà per il figlio.
Anche in questo frangente Maria è succube di una volontà che non è sua: stanno per uccidere il suo adorato figlio e non può fare nulla per impedirlo!
«Ti chiama amore questa mia voce/non fossi stato figlio di Dio/t'avrei ancora per figlio mio»: con queste strazianti parole – la canzone ricorda molto le laudi di Jacopone da Todi – Maria saluta il figlio ed esce di scena.
La Buona Novella è l’invito a rispondere con coraggio, compassione ed amore, come fece Cristo durante la sua vita terrena, agli abusi di un potere corrotto e crudele. Per Faber il messaggio evangelico si trasforma in un’arma potente per difendersi e per combattere un sistema meschino che è sopravvissuto durante i secoli, arrivando fino a noi.
Forse per questo De André parlò di un Gesù uomo e non Figlio di Dio: perché ognuno di noi può essere un rivoluzionario!
Emmanuele Antonio Serio
Quando ero con un coro abbiamo portato in scena la Buona Novella, ed è stato bellissimo. Bravo a ricordare questa opera di Dè Andrè.
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