22 settembre 2020

Quando si fa sera



Mi sono innamorato.
Mi sono innamorato per la prima volta, adesso. A cinquantadue anni.
Ero lontanissimo dal pensare che potesse accadermi una cosa del genere, così violenta, così improvvisa.
Mi ha squassato dentro, stravolto le giornate, ottenebrato la mente, cancellato ogni desiderio.
Perché, ovvio, il mio amore non è stato ricambiato. Mai, nemmeno per un attimo.

Allora (mi chiedo), perché esistono situazioni tanto assurde, perché si deve soffrire come ho sofferto e soffro io: per niente? 
Lo so, c’è gente che si uccide, per amore. Che non sopporta più di vivere sapendo di non poter sperare in un sorriso, in una carezza, nemmeno nel pensiero dell’altro (dell’altra).
Non arriverei mai a questo. Non ci arriverò. E non perché mi illuda di una possibile sospensione dell’angoscia, addirittura di una guarigione; solo perché sono vigliacco, ho paura del male, del momento in cui potrei sentire molto male. 
Precipitando dall’alto, annegando, tagliandomi le vene, impiccandomi.
Credo sia doloroso. 
Oddio, forse con i barbiturici mi addormenterei e basta, senza penare troppo. Ma chi me lo assicura, che il mio corpo non reagirebbe con spasimi atroci, col cuore scoppiato, il cervello incenerito?
No. Aspetterò. Aspetterò di morire come fanno tutti, insieme al mio bene non corrisposto. 
Che mi logorerà piano piano, mi invecchierà precocemente, facendomi cadere denti e capelli, appesantire il fiato, raggrinzire la pelle.
In fondo, potrò continuare a sognarla, lei; mi basterà rivederla ogni tanto, lieve e bellissima, chiara come il suo nome.
Così era, il 21 marzo dell’anno scorso, inizio di primavera, quando mi è apparsa.
Accompagnata dal direttore, era entrata nel mio ufficio con la stessa freschezza di un refolo di vento leggero e pulito in una giornata stagnante. Sorrideva.
“Questa è Chiara, la nostra nuova traduttrice dal tedesco”: con tali parole ci venne presentata. 
La mia segretaria, a cui stavo dettando un appunto, nel guardarla aprì leggermente le labbra in un’appena percettibile esclamazione di sorpresa. 
Io balzai in piedi, abbassai la testa in un ridicolo e compassato inchino di presentazione, pronunciando timorosamente il mio nome grottesco, “Romolo Del Balso”.
Il direttore chiosò lusinghiero, “Il nostro valido e insostituibile responsabile dell’Ufficio stampa”.
Lei mi porse la mano. Era giovane, e con voce giovane, con voce allegra disse: “Molto piacere. Avremo modo di conoscerci meglio”.
Questo fu l’inizio del mio amore, e del mio tormento.
La metà dei miei anni, pensai subito. Meno della metà dei miei anni. Ma l’immagine accesa del suo viso cancellò all’istante tutto il tempo lunghissimo passato prima di incontrarla.
Infatti, cosa avevo vissuto prima di quel momento? Di cosa si era riempita la mia vita, prima di quel giorno? Di niente. Di noia, di tedio ordinato, di rassegnata accettazione degli eventi. 
Tutti cancellati, dopo la sua tenera stretta di mano.
Tornato alla mia scrivania, mi rimaneva tra le dita l’impressione tangibile di aver toccato la gracile delicatezza di altre dita, testimonianza concreta di una verità diversa da quella che quotidianamente 
verificava la mia ingombrante struttura corporea.
Adesso, passato più di un anno da quel giorno, mi chiedo: “Perché non mi hai voluto, Chiara? Perché non ti sei accorta del miracolo che hai operato entrando nella stanza? O te ne sei accorta, e ti ha spaventato scoprirmi improvvisamente graziato dalla tua grazia, guarito dal nulla?”
“Che bella ragazza”, commentò imperturbabile la mia segretaria, constatando seraficamente l’incontestabile.
Rimasi annuvolato per tutta la mattina, sospeso in una bolla trasparente di stupore e insolita felicità.
Rimasi annuvolato anche l’intera settimana, e quella seguente, e tutto il mese, e il mese successivo.
Mi comportavo come un ginnasiale. 
Gironzolavo nei corridoi dell’azienda fingendo irrimandabili faccende da sbrigare, per avere il pretesto di affacciarmi in vari uffici, nella speranza di imbattermi in lei. 
Prendevo l’ascensore su e giù in continuazione, immaginando un guasto improvviso che ci costringesse a una prolungata intimità, chiusi insieme nella cabina. Oppure fantasticavo che scivolasse sulle scale, e io potessi soccorrerla per primo, amorevole. 
Qualche occasione, insomma, con cui mettermi in luce ai suoi occhi, costringendola a provare gratitudine e ammirazione per la mia coraggiosa virilità, o per il mio lodevole acume.
Sapevo di partire svantaggiato, con la pinguedine, gli occhiali spessi, l’impaccio che mi frenava in ogni contatto umano. Speravo tuttavia che la fama di cui godeva la mia vasta cultura potesse in qualche modo impressionarla, o perlomeno renderla curiosa del mio esistere.
Invece, aldilà di qualche rara frase di circostanza, non mi riuscì di parlarle fino all’estate.
Fino al 14 luglio, per la precisione, presa della Bastiglia.
Pausa pranzo, seduto a un tavolino esterno di un caffè poco lontano dall’azienda, avevo di fronte a me un piatto di carpaccio e un’insalata. Quando vidi proiettata sulla tovaglia un’ombra improvvisa, la voce di lei mi raggiunse prima che potessi ideare una reazione decente al suo cortese chiedere “Posso?”.
Mi alzai di scatto, e il suo nome mi rimase incastrato tra lingua e gola.
“Sempre solo, sempre serio…”, continuò sorridente lei, sedendosi alla mia sinistra.
“Non sono sposato”, mi ascoltai rispondere, nella maniera più insensata possibile.
“Non ti ho chiesto questo”, puntualizzò senza nessuna ironia.
“Già, sì, vero, giusto”, mi ingarbugliai confuso. “Nemmeno io volevo dire questo. Cioè, non so perché l’ho detto”.
Da questo imbarazzato incipit prese avvio la nostra strana, e per me esaltante, abitudine di trascorre insieme l’ora del lunch quotidiano.
Parlava lei, giovane bella spiritosa. Chiara. 
Io mi innamoravo sempre di più.
Una volta osai chiederle in che modo si parlasse di me tra i colleghi.
Rispose “Dicono che sei puntuale”.
“Puntuale?”, chiesi.
“Puntuale. Un modo educato per dire pignolo, pesante, noioso”.
Volli approfondire. “E tu, come mi vedi?”.
“Beh, come loro. Puntuale, pignolo, pesante, noioso”. 
Rideva, la mia radiosa ragazza del sogno: vivace, simpatica, disinvolta, decisa.
Poi, con un gesto improvviso e adolescenziale, mi arruffò i capelli sempre composti.
“Falli crescere un po’. E via la cravatta, ogni tanto. Ti sei accorto che è estate?”.
Illudendomi fosse il mio aspetto fisico, la mia compita eleganza a tenerla lontana dall’evidente interesse che nutrivo per lei (improbabile non se ne fosse accorta…), in pochi giorni cambiai decisamente look: abbigliamento casual, occhiali con montatura azzurra, frangetta sulla fronte. Mettendomi persino a dieta.
Mi interrogava su varie questioni. Politiche, culturali, anche personali. Voleva sapere perché abitassi da solo, quante relazioni avessi avuto, come vivessi la mia sessualità. Non era indiscreta, solo molto estroversa, curiosa, sincera.
Io arrancavo, sotto il peso dei miei complessi e delle mie paure, senza riuscire a porle nessuna delle domande che mi premevano in testa. 
Un pomeriggio, sentendomi legittimato dalla sua affettuosa complicità, provai a stringerla con un braccio attorno alla vita, mentre attraversavamo la strada.
“Che fai? Se lui ci vede dalla finestra, diventa geloso”.
Lui? Lui chi? Da che finestra di quale ufficio della nostra casa editrice ci poteva spiare?
Prima di entrare in portineria, mi guardò ammiccante. “Ci sposiamo in settembre, non te l’ho detto?”.
No, non me l’aveva detto, che era fidanzata con il direttore, più anziano di me, più puntuale pignolo pesante noioso di me. Sembrava che la cosa fosse di dominio pubblico da mesi.
“Non lo sapevo”, confessai, mentre una montagna di disperazione mi crollava addosso.
Dopo il matrimonio, dopo il viaggio di nozze, in ottobre tornò al lavoro. Luminosa e felice.
La incontrai in ascensore, sola, come nella più tormentante delle mie fantasie.
“Posso continuare a pensarti?”, le chiesi a voce bassa, restituito ai miei occhiali di corno, alle cravatte eleganti, alla pettinatura inamidata.
“Perché no, Rodolfo? Sei una cara persona”, sfiorandomi la guancia con un bacio filiale, e sbagliando il mio nome.

Alida Airaghi

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