Ogni opera d’arte è una porta che fa accedere ad infiniti corridoi ed ognuno di questi conduce ad una destinazione diversa. Il Decameron, «cognominato prencipe Galeotto», di Giovanni Boccaccio non fa eccezione.
Introduzione
Il successo del Decameron di Giovanni Boccaccio ha superato la prova del tempo: ancora oggi è considerato uno dei pilastri della letteratura italiana.
Nel Cinquecento fu sicuramente di ispirazione sia per Niccolò Machiavelli, durante la stesura della Mandragola, sia per il vescovo Matteo Bandello, autore delle Novelle. Nello stesso secolo l’intellettuale Pietro Bembo, nelle sue Prose della volgar lingua, indicò lo stile di Boccaccio come modello di riferimento per la prosa. Anche se venne inserito tra i libri la cui lettura fu severamente vietata dalla Chiesa, il Decameron attraversò impertinente i secoli senza perdere il suo fascino e la sua freschezza. Nel 1971 Pier Paolo Pasolini curò l’adattamento cinematografico di alcune novelle.
Una delle caratteristiche di un’opera d’arte è la sua capacità di comunicare ogni volta qualcosa di diverso; il Decameron non fa assolutamente eccezione perché consente vari livelli di lettura.
Evasione
Quale potrebbe essere il primo livello di interpretazione? Sicuramente il Decameron può essere letto come opera di puro diletto ed evasione; ed è lo stesso autore a dichiararlo.
A questa brieve noia (dico brieve, in quanto in poche lettere si contiene) seguirà prestamente la dolcezza e il piacere, il quale io v’ho davanti promesso, e che forse da così fatto inizio non sarebbe, se non si dicesse, aspettato.
Anche la regina della prima giornata, Pampinea, dichiara: «Ma se in questo il mio parer si seguisse, non giucando, nel quale l’animo dell’una delle parti convien che si turbi senza troppo piacere dell’altra o di chi sta a vedere, ma novellando (il che può porgere, dicendo uno, a tutta la compagnia che ascolta diletto) questa calda parte del giorno trapasseremo.»
Le tante novelle – i cui temi spaziano dal fantastico al macabro, dal licenzioso al tragico – devono dilettare gli animi delle lettrici (perché a loro è dedicata l’opera), allontanando la «malinconia» e la «gravezza di pensieri».
Esaltare la vita e ripristinare l'equilibrio perso
Il secondo di livello di lettura è l’esaltazione della vita che esorcizza il terrore della morte.
Dico adunque che già erano gli anni della fruttifera Incarnazione del Figliuolo di Dio al numero pervenuti di milletrecentoquarantotto, quando nell’egregia città di Fiorenza, oltre ad ogni italica nobilissima, pervenne la mortifera pestilenza
Siamo nel 1348: l’anno della peste nera. Boccaccio comincia descrivendo la situazione drammatica che stava vivendo la città di Firenze.
Alla gran moltitudine de’ corpi mostrata, che ad ogni chiesa ogni dì e quasi ogni ora concorreva portata, non bastando la terra sacra alle sepolture, e massimamente volendo dare a ciascun luogo propio secondo l’antico costume, si facevano per gli cimiteri delle chiese, poiché ogni parte era piena, fosse grandissime nelle quali a centinaia si mettevano i sopravvegnenti
Insomma Firenze, a causa dei «dolorosi effetti» della peste, si era trasformata in una città dove regnava incontrastata la Morte. Ecco perché la giovane Pampinea propone: «E perciò, acciò che noi per ischifiltà o per traccutaggine non cadessimo in quello di che noi per avventura per alcuna maniera volendo potremmo scampare, non so se a voi quello se ne parrà che a me ne parrebbe: io giudicherei ottimamente fatto che noi, […], di questa terra uscissimo, e fuggendo come la morte i disonesti essempli degli altri, onestamente a’ nostri luoghi in contado, […], ce ne andassimo a stare, e quivi quella festa, quella allegrezza, quello piacere che noi potessimo, senza trapassare in alcuno atto il segno della ragione, prendessimo.»
Per i giovani fiorentini, perduti tutti i loro affetti, diventa un obbligo il lasciare la città per trasferirsi in un «palagio con bello e gran cortile nel mezzo». Il raccontare a turno delle novelle non è solo un passatempo ma permette loro di esaltare la bellezza della vita su questa terra; bellezza che la peste aveva con la sua azione deturpata.
Nelle novelle è però presente la morte (la prima storia, non a caso, racconta dell’inganno fatto da Ser Ciappelletto in punto di morte) perché su questa, assieme alla vita, si fonda l’ordine dell’universo. La morte è parte stessa dalla vita, come sottolineato argutamente da Pasolini. La peste aveva portato disordine nel cosmo facendo trionfare la Morte sulla Vita; questi giovani, mediante l’azione del raccontare, tentano di ricomporre l’ordine perduto.
Ser Ciappelletto |
Boccaccio ed il carnevale
Arriviamo ora alla terza chiave di lettura, che è fulcro di questo breve articolo. Prima però è importante introdurre l’opera del filosofo e critico letterario russo Michail Bachtin: L’opera di Rabelais nella cultura popolare: riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, pubblicato nel 1965. Lo studioso russo sottolinea l’importanza della festa del carnevale nell’opera del celebre autore francese, François Rabelais. Questi aspetti principali della festa però si possono applicare benissimo anche al Decameron.
Il carnevale, in opposizione alla festa ufficiale, era il trionfo di una sorta di liberazione temporanea dalla verità dominante e dal regime esistente, l’abolizione provvisoria di tutti i rapporti gerarchici, dei privilegi, delle regole e dei tabù.
L’anarchia del carnevale è la stessa che ci presenta Boccaccio: «E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la reverenda autorità delle leggi, così divine come umane, quasi caduta e dissoluta tutta […]: per la qual cosa era a ciascuno licito quanto a grado gli era d’adoperare.» Ecco allora spiegato il clima licenzioso e libero delle novelle: la caduta delle leggi umane e divine permette una «liberazione temporanea» dalle «regole» e dai «tabù» e quindi giustifica i temi e i toni, sovente osceni, delle novelle. «Il carnevale era un momento di ciò che potrebbe essere definito disordine istituzionalizzato». (Peter Burke. La cultura popolare; in La Storia. Il Cinquecento: la nascita del mondo moderno)
Il carnevale (e, lo ripetiamo, nell’accezione più larga del termine) liberava la coscienza dal potere della concezione ufficiale del mondo, permetteva di guardare la realtà in modo nuovo: senza paura, senza devozione, in modo pienamente critico
Questa «liberazione temporanea» consentiva di svincolarsi dalle verità ufficiali e dalla cultura imperante; ciò era importante per guardare con occhi nuovi la realtà. Lungi dal dichiarare che Giovanni Boccaccio sia stato un autore umanista, ma non si può non cogliere in lui la presenza di un nuovo tipo di sensibilità che esploderà a partire dal secolo seguente.
Il carnevale festeggia la distruzione del vecchio mondo e la nascita del nuovo, del Capodanno, della primavera, di un nuovo regno.
L’arrivo della peste accentua la crisi che stava vivendo il vecchio sistema, quello medievale, incapace di soddisfare le nuove esigenze di una società mutata e mutevole. C’era un urgente bisogno di cambiamento, di un nuovo ordine.
La novella di Panfilo fu in parte risa e tutta commendata dalle donne
Il ridere per Bachtin ha un duplice fine: distruttore e rigeneratore. Si ride della badessa che ha in testa «le brache del prete», suo amante; si ride di una società corrotta e meschina. Dall’altra parte, però, c’è la rigenerazione: si prende consapevolezza del male del vecchio mondo e lo si evita.
Sottolineiamo ancora una volta che, secondo la teoria rinascimentale del riso (come anche per le fonti antiche da noi indicate), è molto caratteristico il fatto di dare al riso un significato positivo, rigeneratore, creatore.
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