A lui non importava granché, di questa idea del figlio.
Se non fosse stato per gli altri che ci tornavano sopra così spesso. E per lei, per lo sguardo che le coglieva al volo, quando inciampavano in una donna incinta, per strada: o per i sobbalzi davanti al calendario, ogni mese, al minimo ritardo della matita rossa nel cerchiare una data.
Tra loro non ne parlavano mai.
Da quando si erano sottoposti a quella serie di esami, anche un po’ umilianti, alla clinica San Fedele, e avevano accertato ciò che lui sospettava da sempre: che la sterilità era responsabilità sua, lei non c’entrava, no, perfetta. Non si erano più detti niente, non avevano più lontanamente accennato all’argomento. E tantomeno avevano cercato soluzioni d’altro tipo: terapie, interventi. La questione venne semplicemente rimossa.
Cinque anni di niente. Sì, perché se non ci si sposa per avere figli, cosa ci si sposa a fare.
Lei continuava a insegnare, occupandosi con fastidio di bambini altrui. Lui faceva lentamente carriera alla banca.
In cinque anni non avevano lasciato tracce del loro esistere, se non quelle impercettibili, dei rapporti casuali e formali col resto del mondo, con il loro appartamento, le loro scarpe.
L’amore insistevano a farlo, ancora più spesso, e bene. Lui pesandole addosso la sua virilità piena, esigente, come a dire che la scienza si poteva ingannare, si era ingannata. Che non al suo denso fiume si dovevano lanciare accuse di avarizia, bensì a chissà quale sortilegio, malignità nelle radici dell’essere.
Lei sottolineando imperiosa – a scatti di reni, mani e lingua guizzanti – la vita annidata nel suo ventre, pronta a rendersi materia, carne, verbo.
Ma del figlio mancato, del figlio impossibile, non parlavano. Evitando tutto ciò che ad esso potesse ricondurre, o marginalmente alludere, finivano per evitare qualsiasi argomento, e stavano zitti.
La notte, di giorno. Tacevano.
Come avessero siglato un patto di non aggressione, aspettando che qualcosa o qualcuno gli desse il modo di rovesciarsi addosso il feroce non detto. Si sorvegliavano, spiando il momento più opportuno per l’affondo, o per la fuga. Tanta premura mettevano nel non ferirsi, quando erano soli, altrettanta disinvoltura manifestavano davanti a chi li frequentava.
Risultavano addirittura sospetti nell’esibire la loro indipendenza e disponibilità per qualsiasi impegno, vacanza, proposta, suggerita da amici o colleghi: “Noi che non abbiamo impedimenti…”, “Noi che siamo liberi…”. Quasi petulanti, inoltre, nel rintuzzare e ribadire i difetti dell’altrui prole; quella bimba leziosa, l’altro pupo isterico, uno tonto, uno violento.
Loro si sentivano immuni dal peccato originale, ingiudicabili perché non responsabili. Si può forse condannare un sasso, che sta lì, fermo, pieno solo di sé, limitato alla sua circonferenza?
Un sasso risponde esclusivamente di quello che è: la creatura più perfetta dell’universo.
Certo i primi tempi erano stati duri, perfino assillanti. Resistere all’assalto dei perché e come mai e quando vi decidete, alle ironie facili e poi alla morbosa ricerca delle colpe.
Con la madre di lui, ad esempio. Un vero assedio fatto di corredini lavorati già dall’epoca del fidanzamento, e poi telefonate su e giù, inquisizioni, attese, fino a quando il responso inequivocabile aveva inchiodato suo figlio, e scagionato la nuora.
Allora l’inversione di campo era stata repentina e radicale. “Fate bene, fate bene a non fare figli! In questo mondo, di questi tempi! Sono felice, fiera di non essere nonna. E pensare che c’è gente egoista, irresponsabile, che continua a mettere al mondo bambini…”.
Eccetera.
Lei, la moglie, si vedeva che ci soffriva, più che della cosa in sé, di tutto ciò che alla cosa si accompagnava. Allora magoni, i primi tempi, litigi e musi che duravano settimane.
Una volta, proprio intorno al terzo anniversario, quando ancora si illudevano fosse questione di tempo e di pazienza, si era trascinata un ritardo di due settimane. Trionfante, divorava biscotti e budini accampando alibi di voglie a tutte le ore, scorreva il calendario e l’elenco telefonico a cercare nomi.
E anzi, aveva scelto già. Benedetto e Ilaria, che trasudassero gioia, orgoglio di esserci.
La pena verso il marito, allora, e la pietà di sé che provò nel vederlo arrivare misteriosamente ammiccante, una sera, esibendo sul tavolo a lei che non ricambiava lo sguardo “Il primo regalo del suo papà!”, un secchiello rosso, con paletta e formine.
Non c’era stato bisogno di dire niente, nemmeno più tardi.
Invece agli amici – cinque sei coppie con figli, gente intercambiabile, giusto da radunare in casa dell’uno o dell’altro a San Silvestro – l’aveva urlato lui stesso, una sera un po’ brillo.
“Sono io, sono io, crucifige, eccomi qua. L’infecondo lo sterile il fico maledetto…”, e varie bestialità del genere, mentre ballava, tirava coriandoli, suonava trombette. Patetico come tutti i pagliacci, e disperato.
L’episodio aveva fatto il giro degli uffici, alla banca: era arrivato pure alla scuola di lei.
Il collega di educazione fisica, esaltato cultore di forme statuarie, superficiale ma non cattivo (capace sia di battute sferzanti sia di complici silenzi, e di abbracci fraterni), le si era avvicinato affettuoso. Per alcune settimane si mostrò particolarmente attento a lei, pronto a darle passaggi in auto, a tenerle occupata la sedia prima delle riunioni, a offrirle appoggio sia nelle discussioni del collegio docenti, sia mettendosi al suo fianco e aprendole varchi nelle calche degli studenti all’entrata e all’uscita da scuola.
Come fosse stata incinta.
Ma nemmeno un cenno alla sua maternità elusa, delusa; mentre altri non le risparmiavano frecciate per farle capire che sapevano. La collega di scienze, madre tre volte, non perdeva occasione per esaltare l’istituzione dell’affido, delle adozioni, o per intavolare disquisizioni sulla fecondazione artificiale.
Maicol il ginnasta la cercava allora con gli occhi, suggerendole mentalmente “vedi quante bestie al mondo? E se la tua figlioletta mancata fosse venuta fuori così?”
Lei intuiva che dietro alla manifesta solidarietà di lui doveva celarsi qualche intenzione particolare, non del tutto disinteressata: troppo vanesio, troppo preoccupato dei capelli scomposti sul collo e del velo di barba curato, per mettere in secondo piano sé stesso nel rapporto con una donna.
Lo aspettava al varco, e al varco l’atletico Maicol arrivò, anche troppo presto.
Durante uno dei sempre più frequenti passaggi in macchina (“Ti do uno strappo? Passo dalle tue parti…”), lui con noncuranza chiese se avesse tempo per un caffè, e voglia.
“Anche per qualcosa di più di un caffè”, rispose lei, e accorgendosi subito di poter venire male interpretata, aggiunse: “Voglio dire, non ho fretta, mi andrebbe anche un gelato, una fetta di torta”.
Lui, divertito e gigione, continuò sul filo dell’equivoco: “Se hai tempo, ti voglio stupire con una mia esibizione”, e diede una sgommata in direzione della palestra in cui insegnava arti marziali.
Qui si cambiò veloce, mente lei si sistemava su una panchina appoggiata alla parete, a osservare i ragazzini che si allenavano.
Le ricomparve davanti in canottiera e short, e senza aspettare lo scontato commento di lei, si piroettò in una serie di esercizi cadenzati e perfetti a corpo libero. La pelle sotto i muscoli, per l’effetto del sudore o di una crema, gli si faceva più lucida, mentre imperturbabile ostentava la sua abilità con calcolata leggerezza, persuaso del proprio carisma seduttivo, senza rivolgerle nemmeno uno sguardo. Passò agli anelli, e poi al cavallo, sciolto, sicuro. A lei che non se ne intendeva, ogni prova sembrava da premiare: così alla conclusione dei volteggi accennò un applauso.
I pochi presenti sulle gradinate la guardarono incuriositi, ma Maicol era senz’altro abile e prestante, l’unico a meritare un elogio a scena aperta.
“Potresti venire anche tu, ogni tanto, a sgranchirti le giunture. In cattedra ci si arrugginisce”.
“Verrò”, promise lei, sapendo di mentire.
Lo vide uscire dallo spogliatoio con la virile disinvoltura delle comparse pubblicitarie: capelli ancora umidi, freschi di doccia e di profumo, energico e scattante in ogni movimento.
Come chi ha vinto, con la certezza che vincerà sempre.
Maicol le sembrava un nome comico e grossolano, frutto di un ibrido anglo-italiota da cinemascope di paese.
“Ti sono piaciuto?”, le chiese spavaldo, avviando il motore e manovrando in retromarcia.
“Più che a scuola”, ironizzò lei.
“A scuola sono troppo vestito”. La risposta, e il tono in cui fu pronunciata, appunto da maicol rurale, la infastidì; ma si rese conto di avergliela involontariamente e ingenuamente servita su un vassoio d’argento.
Non si allontanarono troppo dalla palestra, girando nella stessa zona residenziale per una decina di minuti.
Alla domanda di lei “Stai cercando un caffè?”, lui bloccò l’auto di fronte a una villetta a schiera, sotto un platano.
“No”.
Con una stretta della destra dietro la nuca, le avvicinò il viso alla bocca, mentre con la sinistra le cercava il seno, glielo stringeva. La baciò a lungo, e a lei non dispiacque. Ma rifiutò decisa la proposta di salire nel suo appartamento, poco distante da lì, e chiese di essere riaccompagnata a casa.
Durante il percorso, lui le propose un nuovo appuntamento per il giorno dopo, scandendo per due volte ora e indirizzo del vagheggiato incontro.
Poi aggiunse: “Non ti deluderò. Sono un bravo ragazzo, forte. Sano”.
Mentre lei scendeva, si sporse dal finestrino: “E fertile”, aggiunse a voce alta.
Lei sorrise appena, gli fece ciao con la mano, entrò nel portone del suo palazzo.
“Vorrei davvero un figlio da uno che si chiama Maicol?”, pensò.
Alida Airaghi
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