2 gennaio 2021

Il migliore dei mondi possibili: perché la globalizzazione è il minore dei mali

La globalizzazione non sarà l’ordine mondiale perfetto, ma semplicemente quello meno peggiore. Si parla sempre più spesso di “tramonto della globalizzazione”, “post-globalismo”, “crisi globale”: ma davvero esiste qualcosa di meglio della globalizzazione per dare ordine e senso al mondo? 

Davvero la globalizzazione sta per lasciare il passo ad un mondo multipolare (o tripolare)? E, se ciò accadesse, quali sarebbero le implicazioni economiche e politiche per il pianeta? Dobbiamo augurarci che la globalizzazione, senz’altro indebolita dalla crisi finanziaria del 2008/2009 e dalla recente pandemia da coronavirus, riprenda vita e si trasformi, continuando ad essere quel sistema che, nonostante tutte le sue imperfezioni, per decenni ha reso il mondo unito, al netto delle precedenti divisioni. Utopia? Forse. Ma ciò che fino al 1989 sembrava impossibile, è divenuto poi realtà, con il passaggio dal mondo bipolare (che già aveva conosciuto una prima fase della globalizzazione) a quello unipolare, caratterizzato dalla diffusione del “modello” politico ed economico occidentale, nonché dalla sempre maggior interazione e interdipendenza tra paesi, istituzioni, imprese e individui nel mondo. 

Forse, nel tempo, si sono visti sempre più i difetti, dell’americanizzazione prima, dell’europeizzazione poi, del nuovo paradigma, tuttavia si tratta di un modello che, nonostante tutto, ha forse più meriti che colpe. Si pensi ai paesi dell’Asia orientale – in particolare Singapore, Hong-Kong, Taiwan, Corea del Sud – che hanno conosciuto, a partire dagli anni Settanta, una repentina crescita economica. Negli anni Ottanta la Cina e, più di recente, l’India – i due giganti demografici dell’Asia, con i loro quasi due miliardi e mezzo di abitanti – hanno avviato un irresistibile sviluppo economico che ha portato centinaia di milioni di persone a godere di nuovo benessere. Secondo gli economisti, questo stupefacente balzo in avanti di un’area così vasta del mondo è in gran parte dovuto alla globalizzazione dell’economia e dei mercati. Agli effetti della globalizzazione viene attribuita anche la crescita generalizzata, a partire dal 2005, del reddito complessivo del pianeta. Essa deriva dal sorgere di nuove industrie e fabbriche in aree del mondo in precedenza agricole e arretrate. Grazie alla manodopera a buon mercato e agli investimenti stranieri, questi paesi di recente industrializzazione riescono a produrre a basso costo e contribuiscono e tenere bassi i prezzi di beni e servizi sul mercato mondiale, frenando così l’inflazione. Purtroppo, la situazione dei paesi poveri è in molti casi peggiorata ma, come sostiene Amartya Sen, dare la colpa della crisi alla globalizzazione sarebbe un assunto alquanto banale perché, se è vero che le nuove e straordinarie interconnessioni accelerano la diffusione di qualunque fenomeno a livello planetario, ciò non implica che la povertà sia stata aggravata dalla reciproca interdipendenza. L’economista sostiene, infatti, che l'idea della globalizzazione come principale causa della povertà nel mondo è in realtà un errore di diagnosi, oltre al fatto che ci sono parecchie evidenze a dimostrazione del contrario. Pertanto, ostacolare la globalizzazione chiudendo le frontiere ed isolandosi sarebbe un grave errore, poiché senza scambio tra paesi si perdono le informazioni, la conoscenza, l'innovazione tecnologica: tutte variabili che hanno avuto e avranno conseguenze decisamente positive sullo sviluppo umano. Oggi ad esempio, i piccoli agricoltori in Africa, grazie all'utilizzo del telefono cellulare, possono informarsi sui prezzi dei vari mercati prima di trasportare i loro prodotti. Per ridurre le diseguaglianze abbiamo bisogno piuttosto di un intervento maggiormente mirato ed efficace da parte delle istituzioni "non di mercato", teso a favorire democrazia, diritti umani, libertà di stampa, istruzione e assistenza sanitaria e, più in generale, ad incentivare un approccio solidale, una sorta di cooperazione globale, che trascenda le consuete relazioni d'affari tra paesi.

Come detto, è innegabile che la seconda ondata di globalizzazione, come si legge in un report di Credit Suisse, ha subito una battuta d'arresto con la grande crisi finanziaria del 2008/2009, un evento traumatico che ha causato un brusco stop alla crescita del commercio globale. Si aggiunga a ciò la recente pandemia di coronavirus, che sta facendo emergere ulteriori spigolature e contraddizioni di un sistema imperfetto. Come ha dichiarato in un’intervista alla rivista francese Le Grand Continent la virologa Ilaria Capua

“attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane”. 

At last but not least, vediamo l’imporsi sullo scenario mondiale di un’Asia sempre più forte e sino-centrica, ormai fulcro della geopolitica mondiale. La Cina che conoscevamo, quella dei fasti imperiali, delle risaie e della forza operaia, ormai non esiste più. Al contrario, stiamo assistendo, in questi ultimi anni, alla nascita di un nuovo modello della realtà cinese, sempre più aperto e pronto a misurarsi con l’Occidente. Ma proprio perché la Cina è il paese che più ci ha guadagnato dalla globalizzazione, è allo stesso tempo quel paese che più ha da perdere dalla eventuale fine del sistema attuale. Se è vero, da un lato, che da una probabile fine della globalizzazione così come la intendiamo oggi, la Cina potrebbe uscirne indebolita, d’altra parte è difficile anche solo ipotizzare un suo tracollo. La Cina, se si presentasse questa eventualità, saprà rimettersi in piedi, ma solo ripensando il proprio modello di sviluppo, creando cioè un mercato interno in grado di assorbire le proprie capacità produttive, al fine di compensare la riduzione della domanda estera e continuare quindi a crescere in un mondo che, oggi più che mai, si dirige a passo svelto verso il conflitto tra i grandi macro-blocchi, piuttosto che la collaborazione tra di essi, com’era fino a non molto tempo fa. E questo credo sia il rischio maggiore che non possiamo permetterci di correre. La globalizzazione è in crisi e si profila all’orizzonte un ordine mondiale multipolare (o tripolare) dominato dai tre macro-blocchi di USA-Europa, Russia e Cindia (la nuova superpotenza da tre miliardi e mezzo di persone), con un insieme di residui ideologici disparati e sconnessi, religioni tradizionali in salsa estremista e dosi sempre più massicce di nazionalismo e persino razzismo. Frammentazione ideologica, politica e regionale in un siffatto ordine mondiale renderanno sempre più improbabile una risposta solidale e coesa del sistema occidentale sotto attacco. Si perderà il fattore unificante per cui, persino nel caso di emersione di minacce chiaramente globali, come l’attuale pandemia, le risposte saranno sconnesse e differenziate, tutto a scapito della sicurezza di ognuno. In una situazione simile, il rischio di una nuova guerra mondiale generalizzata diverrebbe ancor più reale, in quanto le crisi internazionali esploderebbero una via l’altra, non essendoci più un intervento diplomatico unitario. Certo, il multipolarismo avrà anche degli aspetti positivi, ma quello appena profilato è uno svantaggio che non tarderebbe a presentarsi e su cui è opportuno fare delle riflessioni.

Dunque, quello della globalizzazione non sarà certo l’ultimo e il più auspicabile stadio evolutivo del mondo, ma se il prossimo passo fosse quello di tornare indietro, anziché avanzare, potremmo alla lunga perderci tutti, da Est a Ovest. Come avrebbe detto Leibniz, viviamo “nel migliore dei mondi possibili”, anche se (forse) dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi non ce ne siamo mai accorti.

Manuel Cifone


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