Narciso, un personaggio super vanitoso, che, se fosse vissuto in questa era, molto probabilmente, a quest’ora, troppo impaurito dal body shaming, sarebbe in coda per farsi la terza rinoplastica, appena terminato il lifting del viso. Ma, in realtà, sarebbe, per davvero, disposto ad annullare la sua identità originale per apparire più come gli altri si aspettano?
Il mito lo conosciamo tutti, forse. Lo raccontano sin da piccoli per insegnare ai bambini, con uno spirito abbastanza lefty, che amarsi è giusto, che guardare ciò che il riflesso dello specchio rimanda non è strano e che scoprire che ciò che vediamo ci piace è normale, quasi doveroso. Per cui, Narciso non sembrerebbe dare lezioni di frivolezza, anzi, è piuttosto didascalico e anche spaventoso. Tuttavia, alla fine, come un perfetto fulmen in clausola, arriva sempre la mela avvelenata a far finire la favola in fretta. Qui, ad essere velenoso e far morire quel poco di empatia di cui, in teoria, siamo tutti provvisti, è (stranamente?) il dedicarsi in modo esclusivo e, abbiamo scoperto, anche masochistico a sé stessi. Come dissentire, d’altronde?
Sono cresciuta con la storia di Narciso sul cuscino, accanto a me, e, forse proprio perché nella mia generazione (quella Z, sì) tutto è un po’ riot, abbiamo sviluppato un fastidioso e superegotico io, tra le lettere della tastiera del telefono, che, se da una parte ci rende insopportabili, dall’altra ci permette di empatizzare con i tipi come Narciso, come noi, appunto. Ancora non si sa se sia un bene o un male. Ma, parliamoci chiaro, Narciso non è solo espressione di una cultura della morte egoistica. Narciso è glossy, è caduco, incarna alla perfezione le dinamiche fisse della coralità, quella interessata all’apparenza, allo status quo, alla label di moda in quel momento da mostrare in giro come una patente appena presa.
Il suo problema è l’aver avuto uno chicchissimo e anacronistico velo di Maya, magari di seta azzurra, steso su quegli occhi (a forma di cuoricino per sé stesso solo, però), tra le sopracciglia e il naso all’insù, che ha fatto sì che la percezione della realtà per così com’era, realmente, che forse Narciso neanche ha mai conosciuto, non filtrasse attraverso quella vellutata barriera. Mi spiego meglio: Narciso era bellissimo, ma è nato con la sfortuna di non avere la sagacia adatta a riconoscere l’illusorietà della vita cui, peraltro e paradossalmente, ha condannato sé stesso a vivere. Perdendo di vista, tra il novantanovesimo e il centesimo colpo di spazzola, il centro reale del mondo, ha creduto, in balia della smania di sé, di essere lui stesso quell’ombelico ed è finito affogato dal suo asfissiante ego, non contenibile nella sua figura, troppo minuta e senza vie d’uscita. A ripensarci bene, Narciso si determina sempre più come un Dorian Gray dell’età classica, un dandy, un esteta imbarazzato dallo scorrere del tempo che, pur di ricevere ancora i match su Tinder, modifica, di anno in anno, la data di nascita su Facebook e che fa strani patti col diavolo per, poi, finire, con i nervi schizzati, a distruggere la casa che abita. Azzarderei aggiungere anche una manciata di annichilamento kierkegaardiano abbinato da dio, secondo me, ad un pizzico di pessimismo di Schopenhauer.
Partendo da un mito classico, anatomizzando buona parte del pensiero filosofico contemporaneo sul laconico annullamento di sé, si giunge alla nostra disastrosa e imprevedibile era, quella dei social (e delle post-verità). Infatti, la malattia sociale dello svuotamento della propria personalità è quanto di più attuale e reiterato esista oggi, perché viviamo in un mondo in cui il voyeurismo, attraverso le “storie”, si manda giù come pane quotidiano. E piace, anche molto direi. Un mondo che si erge sulle ombre cinesi, decorato con falsi specchi e inganni costanti, dove ciò che vedi non esiste, non è reale e lo sai bene, ma se gli altri non alzano la testa, che senso ha che lo faccia tu per primo?
A muoverci non è più l’ambizione di superare lo stato d’esistenza corrente, già fuori moda, per poterne conquistare uno migliore, risalendo la scala dell’essere. È la malsana competizione con gli altri per ottenere quella vita e quella bellezza, che, eminentemente, tutti vorrebbero, a farci vergognare, mentre ci guardiamo sullo schermo e realizziamo con sorpresa, per la prima volta, che non siamo per niente come quei modelli su Vogue. Ma sono solo fantasmi. La vita che oggi si ricerca è un contenitore, svuotata della vera bellezza e riempita di altre qualità (inutile dirlo, false), una vita che è tutta sponsorizzazioni e photoshop.
A questo punto, un aut-aut è completamente escluso e, quindi, rimane solo l’opzione della degenerazione, secondo Kierkegaard: ormai, siamo già schiavi di views, follow, likes e acido ialuronico, la degenerazione ce la stiamo iniettando dentro. Non esiste un punto, in questa riflessione, dove ci sia una risoluzione catartica: la privacy è in modalità offline e ciascun volto cambia ogni giorno a seconda dei nuovi filtri in uscita.
In fondo, se anche un tipo come Narciso, immerso in un tempo mitico, sfumato, senza coordinate, forse mai neanche esistito, segue tutti gli aggiornamenti in tempo reale dei trend del fashion-influencing ed è appassionato (oltre che di botanica) di programmi tv di chirurgia plastica estrema, a maggior ragione, forse, anche noi dovremmo dimostrare, per questa stucchevole, melliflua e moderna fiera della vanità, un’attenzione assidua, se non superiore, almeno pari, dato che l’epoca in cui l’insicurezza personale traspira anche solo da un selfie postato sul feed è la nostra.
Perciò, bambini, non accettate mai caramelle (o peggio, complimenti) dallo sconosciuto che vedete riflesso nello specchio e, mi raccomando, state lontani dalle pozzanghere che piangete ogni volta che perdete un follower, non si può mai sapere quanto siano profonde.
Ludovica Peronti
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