«La mafia [a Palermo] ha influenzato sempre la vita di tutti, e in particolar modo la mia…» con queste parole comincia il film di Pif La mafia uccide solo d’estate: istintivamente si potrebbe pensare che questa affermazione sia valida per tutti, o almeno per buona parte dei palermitani. Invece vi dico, con buona certezza, che questa affermazione la si può estendere a quasi tutta la Sicilia e quindi a quasi tutti i siciliani.
Sono cresciuto in quegli anni ‘80 in cui il quotidiano La Sicilia, ogni fine anno faceva il bilancio dei morti ammazzati tra Palermo e Catania, e a mia memoria, vinceva sempre Palermo. La mia città [Siracusa] non era esente da questa violenza, seppur pochissimi i casi a confronto, ma sufficienti a trasmettere una sottile linea di terrore che ha accompagnato la mia adolescenza fino a quando le esecuzioni in pieno giorno, in centro o in una località balneare, cessarono quasi del tutto a seguito dell’arresto di Salvatore Riina. In quei primi anni infatti dominava la teoria stragista dei corleonesi, e i film che passava la televisione erano Cento giorni a Palermo o la serie TV La piovra, per non parlare dell’immancabile Il Padrino. Quella violenza percepita indirettamente mi ha sempre turbato, talmente tanto da condizionare la mia attività onirica adolescenziale. Ricordo l’incubo ricorrente di assistere a qualcosa che non avrei dovuto vedere, come un pregiudicato mentre compiva un reato, e di fuggire perché intimorito delle conseguenze; poi spuntava la polizia che mi chiedeva conto e ragione di ciò che avevo visto e da ciò emergeva sempre il tema del conflitto tra omertà e coscienza: una tensione che per fortuna è rimasta sempre a livello di sogni. Così non posso che fare mia la riflessione del piccolo protagonista sempre de La mafia uccide solo d’estate quando chiede al padre: «Ma la mafia può uccidere anche noi?» Con la grande differenza che non m’avrebbe sollevato dall’angoscia sentirmi dire che, essendo inverno la mafia non avrebbe ucciso nessuno… Questa tensione onirica però sfociava nella vergogna di un condizionamento che mi bloccava anche dal denunciare alla polizia una qualche stranezza: come quando davanti casa dei miei genitori, in uno spiazzo non ancora cementificato dall’espansione edilizia, nel buio della notte si appostavano delle auto per ore. Ricordo la curiosità di capire quali loschi traffici vi fossero in corso, osservando a luce spenta dalla finestra della mia cameretta attraverso le lenti di un binocolo, ciò che il buio celava. Forse si trattava solo di coppie appartate, o magari c’era anche chi si scambiava della droga: vai a saperlo…
L’onda lunga di quel clima pesante si ripercuoteva anche nella psicologia degli studenti delle scuole superiori, influenzati anche dall’attualità di film come Mery per sempre e Ragazzi fuori. D’altronde io non ho frequentato un liceo, dove la presenza femminile e magari i tanti figli di papà avrebbe mitigato certi atteggiamenti, ma in una scuola tecnica con una forte prevalenza maschile. Lì ho sperimentato la disinvoltura di un linguaggio divenuto piuttosto comune tra i compagni di scuola, quello para-mafioso. Non sto dicendo che la mia scuola fosse piena di delinquenti, ma di giovani che avevano voglia di fare i gradassi sì, e con troppi soggetti che aspiravano solo al “pezzo di carta” (il diploma) per liberarsi dalla scocciatura della scuola. In fondo ne facevamo delle belle (mi ci metto nel mezzo pure io in qualità di complice), bravate, sfottò e scherzi che oggi assumerebbero la connotazione di bullismo, ma che ieri erano i bagaglio di un vissuto su cui ho forgiato (a mie spese) la ponderazione dell’oggi. Ovviamente le bravate andavano nascoste agli insegnanti e chi si dimostrava debole, magari spifferando gli
autori del gesto per evitare ripercussioni sul proprio voto in condotta, veniva subito definito uno “sbirro e carabiniere”. Ovviamente nessuno degli studenti si rendeva conto dell’inopportunità di quelle parole da carcere dell’Ucciardone.
Uno degli studenti, che noi definivamo mezzo malacarne (semi delinquente) addirittura attuò un comportamento para-mafioso chiedendo il pizzo ai compagni per pagarsi il sequestro del ciclomotore per non aver indossato il casco. Questi girava per tutte le classi chiedendo 5.000 lire a testa, riscuoteva e poi tornava alla carica dopo alcuni giorni per recuperare i pizzo da coloro che non lo avevano ancora dato. Io, che i soldi li chiedevo ai miei genitori, dovetti raccontare la ragione di questo extra e mio padre, che non ha mai accettato tali abusi, un bel giorno andrò dal preside denunciando tutto: da quel momento le richieste finirono per colpa, a dire di tanti, di uno sbirro e carabiniere che aveva fatto la spia.
Per un compagno che si atteggiava a mafiosello, c’era anche chi lo sarebbe diventato realmente. Parlo di un compagno di classe delle medie che dovetti poi ritrovarmi per un anno ancora alle superiori: un anno solo, perché per fortuna venne bocciato. Sin dal primo momento il suo modo di fare non mi piaceva, non che facesse qualcosa di male, semplicemente non mi sentivo a mio agio con lui... Scoprirò poi, a distanza di anni, il suo nome in un giornale di cronaca locale tra gli arrestati per spaccio di droga. Nel persistere poi in quell’ambiente, fu tra gli arrestati del clan Attanasio-Bottaro.
Negli anni Novanta la mafia chiedeva il pizzo con le bombe e gli incendi, e lo faceva con una certa disinvoltura perché ancora nessuno aveva avuto il coraggio di denunciare, come aveva fatto l’imprenditore Libero Grassi. Convivevo con questa cappa pesante pensando alle vite sotto tiro dei tanti commercianti taglieggiati. A casa, per fortuna, con questo problema non ci abbiamo mai avuto a che fare, seppur i miei genitori avevano un negozietto. Tuttavia devo raccontare una vicenda tragicomica che per alcune settimane, ci ha tenuti in un’indicibile angoscia generata dalle minacce di uno sconosciuto…
Tutto è iniziato una sera, quando sono cominciate delle telefonate senza risposta. Il primo pensiero è stato subito quello di collegarlo ad una minaccia diretta a chiedere il pizzo. Poi nei giorni seguenti il silenzio si è trasformato nella voce di un uomo che con tono minaccioso diceva: «Pensi che quella sia casa tua?» Strana quella minaccia legata alla casa di proprietà, molto strana... Una stranezza che si è enfatizzata nelle successive telefonate quando sono emerse delle affermazioni incongruenti che chiamavano in ballo la presenza di una bambina: di quale bambina parlava, se in casa eravamo due figli maschi? Nei giorni successivi il carico divenne insostenibile per i miei genitori, tanto da decidere di mettere fuori posto il telefono al sopraggiungere della sera. Solitamente le minacce erano rivolte a mio padre, mentre se c’era mia madre a rispondere, riattaccavano. Fino a quel momento io non avevo mai risposto al telefono e una sera con la scusa d’essere solo a casa decisi di affrontare queste persone. Puntuale verso le nove di sera arrivò la telefonata, ma l’interlocutore udendo la mia voce non disse nulla riattaccando. Così utilizzando il vecchio servizio della Telecom: “Chi è?” ho ottenuto il numero del chiamante e questa volta la telefonata l’ho fatta io: «Pronto, chi parla?» Disse la misteriosa voce: «Io sono quello a cui chiami tutte le sere. Si può sapere qual è il problema?» Il tono deciso delle mie parole spiazzarono l’interlocutore che dopo un attimo di silenzio tornò al solito tono minaccioso. Tuttavia, deciso a comprendere la natura della minaccia, l’ho incalzato chiedendo spiegazioni: almeno per capire dove si voleva arrivare. Questi ad un certo punto, malcelando le sue reali intenzioni disse: «Vedi che io appartengo al giro… e tu questo numero te lo devi dimenticare!» È stato in quel momento che ho capito di avere a che fare con un povero scemo: di certo non era questo il modo di minacciare! Così dopo venti minuti di discussione ed un mio tono sempre più conciliante è emersa la verità: il tizio aveva semplicemente sbagliato numero e voleva minacciare il convivente della sua ex moglie, usando i toni del mafioso, senza esserlo veramente. Così quando ha concluso la telefonata giungendo persino alle scuse, mi sono fatto una grande risata…
Una ventina d’anni fa decisi di visitare Palermo: erano le prime volte che mi approcciavo alla città, per me sempre timorosamente seducente e tremenda allo stesso tempo. Parcheggiata l’auto nello spiazzo antistante le catacombe dei Cappuccini, mi sono imbattuto in un parcheggiatore abusivo, a cui pagai il mio obolo onde evitare problemi. L’uomo con un marcato accento palermitano, che ricordava tanto quello dell’attore Tony Sperandeo in uno dei suoi tanti ruoli da mafioso, mi chiese da dove venissi: «Siracusa» ho risposto. «Ah, Siracusa, un posto tranquillo…» Tranquillo? In che senso? Ricordo di aver riflettuto a lungo su quella parola così ambigua, giungendo alla conclusione che per quell’uomo la tranquillità non era certamente dovuta all’assenza di traffico (vi ricordate l’ironia del film Johnny Stecchino?), ma al fatto che non era una città che faceva parlare molto di sé almeno per fatti di cronaca nera e mafia, e per questa ragione assieme al ragusano vengono definite unitamente la “provincia babba”, quasi fosse una connotazione negativa. Ma se questo appellativo è vero tutt’oggi per quasi tutto il ragusano, non si può più dire lo stesso per la mia città…
Mi ero convinto per lungo tempo che la cessazione vistosa di atti cruenti, criminalità comune e quant’altro andassero di pari passo con un sereno scivolamento nell’apatia da provincia babba. Poi casualmente, qualche anno fa, sono incappato in un video di Fanpage in cui il giornalista Sandro Ruotolo raccontava (ai miei occhi ingenui) una città quasi del tutto inedita. La mafia che gestisce una vasta piazza di spaccio. La mafia che minaccia, che chiede il pizzo e impone il prezzo ai commercianti. Tutto questo ad appena 500 metri da casa mia! In questi luoghi vi passo spesso, magari prendendo una scorciatoia per dirigermi dall’altra parte della città, con la differenza che di giorno sembrano vivere un’apparente normalità. Ma quei fatti così minuziosamente raccontati, hanno trasformato la mia quotidianità d’un colore assai diverso. Tanto diverso da farmi sentire plausibili le parole dell’attore Luigi Lo Cascio nei panni di Peppino Impastato nel film I cento passi
: «…cento passi ci sono da casa nostra, cento passi. Vivi nella stessa strada, prendi il caffè nello stesso bar. E alla fine sembrano come te…»
Le vicende del giornalista Paolo Borrometi descritte nel video sembrano riportare indietro le lancette agli anni in cui giornalisti come Mauro De Mauro, Mario Francese o Pippo Fava, per il fatto stesso di dire la verità sul malaffare e la mafia persero la loro vita. Borrometi infatti fa un giornalismo di cui abbiamo quasi perso la memoria, egli sviscera i nomi e svela i fatti di mafia con grande precisione. Qualche anno fa l’ho incontrato nel corso di un piccolo evento in cui raccontava la sua storia personale. Nei suoi occhi e nelle sue parole ho toccato con mano le modalità con cui queste persone agiscono. Da allora ho prestato maggiore attenzione agli stessi luoghi che precedentemente sottovalutavo. Ho individuato un portone che fino ad alcuni mesi addietro ostentava in una parete vicina il murale della statua della libertà con un kalashnikov in mano, murale poi coperto a seguito di un blitz della polizia che ha sventato per l’ennesima volta un’ampio smercio di droga organizzato dal clan locale. A tutt’oggi quel portone è sempre aperto e c’è sempre qualcuno davanti a fare da vedetta, proprio come viene raccontato nella serie TV Gomorra.
La mano lunga di questi clan si manifesta nelle inquietanti scritte contro coloro che collaborando dal carcere con la polizia vengono definiti infami. Negli ultimi mesi, seppur penalizzati dal lockdown, boss e pregiudicati fanno percepire la loro oscura presenza facendo sparare fuochi d’artificio illegali. Quasi tutte le sere, a volte persino a mezzanotte, festeggiano nella loro ostentata villanìa un compleanno o persino la scarcerazione di un membro della famiglia. È un modo indiretto per sfidare la città, le forze dell’ordine e mostrare a tutti che ci sono e comandano. |
Intimidazione mafiosa contro un pentito |
In una realtà come quella siciliana e meridionale che soffre d’un atavico deficit di senso civico e quindi di rispetto del prossimo, la maffia di troppe persone rende la vita quotidiana costantemente a rischio di contrasti; da coloro che saltano la coda pretendendo d’aver ragione, fino all’incubo (sempre possibile) di avere un incidente stradale con un soggetto lombrosianamente poco raccomandabile, su cui ovviamente non avrete diritto di replica... L’unico modo per mettersi alla pari, onde superare quella sopraffazione gratuita, è di cercarsi un “amico”. In questi casi non c’è bisogno di una raccomandazione, come il significato letterale vorrebbe dire, bensì di una persona poco raccomandabile da poter chiamare. Mi spiego meglio. Quando ero ragazzo, un “amico” malacarne serviva per recuperare il ciclomotore che in passato spariva con estrema facilità: appresa la notizia la soluzione migliore era quella di contattare la persona giusta che consentiva di bloccarne lo smontaggio dei pezzi a fronte di un pizzo a volte anche consistente. Questo “servizio” era più efficace di una denuncia alla polizia. Oggi le problematiche potrebbero essere altre: un vicino di casa restio al rispetto delle regole di convivenza civile o un inquilino moroso che non si riesce in alcun modo a cacciare… Ebbene un “amico” come questi, purtroppo, risolve celermente laddove il buonsenso, la legge e il senso civico non arrivano.
La recente storia della mafia, l’espansione del fenomeno negli anni ’70 e ’80, la fase stragista e gli omicidi indiscriminati. La barbarie cieca attuata strangolando e facendo a pezzi il cadavere, sono un modus operandi mafioso assimilabile quantomeno alle patologie da serial killer. La stessa violenza prodotta nel resto d’Italia dalle Brigate Rosse o da altri gruppi estremisti si limitava all’uccisione secondo una violenza fisicamente distante dall’esecutore: un colpo di pistola, una bomba non sono certamente la stessa cosa delle modalità mafiose testé dette. Questa "anomalia criminale", il cui terreno è sempre e solo quello siciliano, dimostra come sussista nell’inconscio collettivo siculo una parte oscura particolarmente viva. Così mi sovviene il concetto junghiano di Ombra, quella parte di noi stessi con cui dovremmo fare i conti per portare avanti un necessario processo di individuazione atto ad elevarci interiormente, riequilibrando tutte le componenti individuali. La Sicilia in questo caso, se considerata come comunità di genti espressa nel suo inconscio collettivo, sembra aver avviato un primo processo di individuazione quando ha dovuto fare i conti con l’Ombra di se stessa espressasi nella feroce violenza mafiosa dei Corleonesi e non solo. Il lungo elenco di morti ammazzati, fino all’inaccettabile sacrificio di Falcone e Borsellino, ha scosso persino l’atavica indolenza dei tanti (troppi siciliani) che la mafia la consideravano accettabile. Tutto ciò ha dolorosamente costretto ad una riflessione, persino coloro che fino a poco tempo prima avrebbero affermato candidamente che la mafia non esiste.
I segnali di un mutamento di coscienza si intravedono, nonostante tutto, certi diktat mafiosi non sono più accettabili dai più. E per questa ragione sempre più commercianti rifiutano il pizzo, ed è notizia recente che persino certi mafiosi, onde evitare problemi, suggeriscono di agire ipocritamente come paladini antimafia. Ciò significa che i margini di manovra, nell’accettazione sociale, si sono ridotti. Ma tanto ancora c’è da fare e ciò che appare anacronistico è tutt’oggi presente: la mafia sotto casa, di cui non ti rendi neanche conto, esiste e all’occorrenza esce anche allo scoperto.
Davide Mauro
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