È una declinazione filosofica dell’amore, quella contenuta ne Le cose dell’amore di Umberto Galimberti, che non ne risparmia i fantasmi, le sfaccettature più celate e quelle meno nobili. Un libro a tratti enigmatico, a tratti rivelatore, come è in fondo l’amore stesso.
Mediante frequenti richiami al mito, primo fra tutti a quello narrato ne Il Simposio di Platone, una delle menti più acute nella nostra epoca opera una declinazione filosofica dell’amore, anche nelle sue sfaccettature più celate e meno nobili, spiegando le complesse dinamiche esistenziali dell’amore fino a giungere a svelarne, infine, la sua prossimità con la follia, con il prevalere del subconscio sull’Io.
L’esito cui giunge l’autore è chiaro quanto sconcertante.
Di cosa ci si fida in fondo quando ci si innamora?
Non ci si fida certo di un "Io ti amo", semplicemente perché l'amore è tutto fuorché cosa dell'Io. Infatti, delle due l'una: questi abissi sono o anfratti destinati a rimanere inaccessibili o porte che, se varcate, possono travolgerci. L'Io farebbe facilmente a meno di tutto questo. Come, infatti, si libererebbe seduta stante, ed altrettanto facilmente, di un amore troppo folle, sbagliato.
Quell’amore dannato così tanto celebrato ed esaltato quando si parla di “amore romantico”. Un "amore negativo", se volessimo azzardare un riferimento un po’ Indie riprendendo i Baustelle (dall’Album L'amore e la violenza vol.2, la traccia L’Amore è negativo) o, comunque, un amore che ci dilania, Love Will Tear Us Apart Again, à la Joy Division.
Il nostro Io cerca quindi scampo dalle ombre.
Il problema è che dopo aver concesso il cedimento dell'Io, l'altra parte di noi, che fedelmente si riflette negli occhi dell'altro, ci ha contaminato, perché dopo aver incontrato i nostri abissi, come ci avvertiva Nietzsche, non siamo più gli stessi di prima.
Se questo è lo svolgimento di un amore-passione che tende a diventare, freudianamente, malattia, quella che invece l’autore propone è una alternativa, meno innata, meno romantica forse, ma più matura.
A rendere possibile la vera interlocuzione amorosa, nel riconoscimento dell’amato come altro da sé, diversa da quell’amore solipsistico che lo vede come semplice nostro specchio, è, per Galimberti, la capacità di raggiungere un contatto consapevole con le nostre ferite, le nostre mancanze, senza fuggirle, bensì trasformandole, mediante gli strumenti dell’immagine e della parola, in contenuti conoscibili dalla coscienza.
Perché questo accento sul logos, sulla parola?
Perché l’amore che porta a conoscere l’altro da sé è, in realtà, qualcosa che si apprende. Frutto di una mediazione culturale, non appartiene ad uno stato pulsionale, ma, come tutti i sentimenti, è qualcosa che si impara.
In contrasto con il motto kantiano che ravvisa un comando morale verso il bene dentro l’anima di ognuno, nella convinzione che ciascuna “senta” (è precisamente il termine utilizzato da Kant), senza necessità di definirla, la differenza tra bene e male, Galimberti, più realisticamente, prende atto che solo in una dimensione matura, sentimentale e non pulsionale, si può avere una risonanza emotiva dei propri gesti, preliminare alla sperimentazione di ogni sentimento, che coniuga il piano emotivo con la capacità cognitiva di percepire e accogliere il mondo esterno.
Se non si giunge a tale livello, rimanendo ad uno stato pulsionale, si diventa degli “Analfabeti emotivi”, come ci ricorda il filosofo (Galimberti fa proprio il pensiero espresso dallo psicologo statunitense Daniel Goleman nell’opera Emotional intelligence del 1995, in cui si sviluppa il concetto di “analfabetismo emotivo”) con uno sguardo rammaricato e disincantato all’attualità.
I sentimenti, quindi, non sono una dote naturale ma una dimensione culturale. Da sempre le parole, prima quelle degli antichi miti, oggi quelle della letteratura, sono un luogo di apprendimento della fenomenologia dei sentimenti: l’apollineo e il dionisiaco, l’odio, la disperazione, la passione, l’amore.
In un’epoca della tecnica in cui le neuroscienze sostituiscono i fatti ai significati, un recupero di tale dimensione diventa quindi essenziale. Non dimentichiamoci, come ricordava già nel suo trattato quel fine conoscitore della mimica umana che era il genio di Leonardo da Vinci, che nel riso e nel pianto i muscoli usati sono gli stessi, la “meccanica” sembra la stessa.
«Da quel che ride a quel che piange non si varia né occhi, né bocca, né guancie, ma solo la rigidità delle ciglia, che s’aggiunge a chi piange, e levasi a chi ride.»(Leonardo da Vinci, Trattato della Pittura/Parte terza - De' vari accidenti e movimenti dell'uomo e proporzione di membra/281. De' moti delle parti del volto).
Il significato dell’esperienza, però, è molto diverso. Se ci si sofferma solo sui particolari, separandoli dal contesto, non si comprende il senso di due gesti così uguali e così opposti.
Non sono i fatti ma le interpretazioni degli stessi, i significati, che costruiscono la nostra dimensione esistenziale.
Giulia Pini
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